Stare bene
Il protagonista di Padri e figli, di Turgenev (1862), dice Si sta così bene, dove non sono io, che è un cosa simile a quella che, un secolo dopo, dice Manganelli quando dice Come staremmo bene qui, se fossimo altrove.
Il protagonista di Padri e figli, di Turgenev (1862), dice Si sta così bene, dove non sono io, che è un cosa simile a quella che, un secolo dopo, dice Manganelli quando dice Come staremmo bene qui, se fossimo altrove.
Come, muori tutti i giorni, va’ a cagare, va’ là, morirai tu tutti i giorni, io, che sono più vecchio di te, ma non ci penso mai,
non ci pensa nessuno, dài, su, se fosse come dici tu, ci sarebbe da diventare matti, poi io, tu di’ quello che vuoi, mi sento giovane dentro, son giovane di spirito, io, il mondo, ma anche tu, guarda il mondo, altro che morire, svegliarsi tutte le mattine, che pare niente, ma pensaci, non è una festa? tutte le mattine avanti fino a sera, e vuoi morire, tu? lascia che muoiano gli altri, che poi muoiono sempre gli altri, ci hai fatto caso? e Molari, poveretto, è morto davvero, lui sabato ha tirato giù la serranda, con tutti i suoi soldi, che se li è goduti porca puttana, se n’è cavate di voglie, e beh, i soldi, ragazzi, però adesso lui è morto e io sono qui al Caffè Roma che mi bevo un bel vinello al selz.
[Sulla Lettura del Corriere (scritto da Vivian Lamarque) e sul Fatto (scritto da me) sono usciti oggi due pezzi su Chiudo la porta e urlo che presento oggi, a Milano, Monterosa 91 alle 17]
Pascal una volta aveva mandato un libro a un suo amico e nella lettera che gli aveva scritto si era scusato che il libro fosse troppo lungo «Non ho avuto il tempo di farlo più corto», aveva scritto Pascal, e io lì a Santarcangelo mi son scusato anch’io che la presentazione sarebbe stata forse un po’ lunga.
[Domani, sul Fatto quotidiano, racconto l’uscita di Chiudo la porte e urlo e provo a ragionare su come è scritto]
Dopo, al dibattito, a Torino, alla fine Calabresi mi ha chiesto se volevo concludere io e io ho detto che non sapevo tanto cosa dire ma che avevo l’impressione che noi quattro, tutti e quattro, la cosa che facevamo, il nostro mestiere, era raccontar delle storie, che era un mestiere che, come avevamo detto, si rischiava di spaccarsi la testa, e che questa cosa mi faceva venire in mente Maksim Gor’kij, che era nato povero, era diventato presto orfano, e si era messo a scrivere e aveva avuto successo e gli aveva scritto Čechov e gli aveva fatto i complimenti e lui aveva risposto che i complimenti di Čechov l’avevano imbarazzato e gli sembrava di non meritarseli, Perché io sono uno che si è messo a correre e adesso vado come un treno e andrà a finire che vado a finir contro un muro e mi spacco la testa, aveva scritto a Čechov Gor’kij, più o meno, cito a memoria. E Čechov gli aveva risposto Gor’kij, gli aveva scritto, ma cosa dice, lei lo sa benissimo che non è che ci si spacchi la testa perché si scrive, ma si scrive perché ci si è già spaccata la testa, aveva scritto Čechov a Gor’kij, più o meno, cito a memoria.
[Domenica 17 novembre, alle 17, Milano, Monterosa 91, Chiudo la porta e urlo]
«Come siete magra! E guardate che mano che avete, pare trasparente! Avete le dita come i morti».
[Un complimento di Raskol’nikov a Sonja Marmeladova, in Delitto e Castigo, traduzione di Damiano Rebecchini; domani, a Milano, alle 18 e 30, al collegio di Milano, via S. Vigilio 10 Il rischio di leggere Tolstoj e Dostoevskij]
Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.
Cesare Pavese
Stasera, a Santarcangelo di Romagna, Chiudo la porta e urlo.
Oggi, soprattutto, non mi devo dimenticare la tromba sul treno.
Esce domani chiudo la porta e urlo, cominciamo a ripetere un po’ di cose.
Ci sono dei versi, come «Ho imparato la scienza degli addii nel piangere notturno a testa nuda» (di Mandel’štam), o «Vivere una vita non è attraversare un campo» (di Pasternak), o «Mi piace che mi grandini sul viso la fitta sassaiola dell’ingiuria (di Esenin), o «Poco, mi serve. Una crosta di pane, Un ditale di latte E questo cielo E queste nuvole» (di Chlebnikov) che, quando uno li legge, è poi probabile che quei versi lì vivano con lui per tutta la vita, e per tutta la vita, da quando l’ho letto la prima volta, vive con me «Stupefatto del mondo mi giunse un’età che tiravo dei pugni per aria e piangevo da solo», che non è un verso russo, è italiano, il celebre inizio di Lavorare stanca di Cesare Pavese che sarebbe, con Guido Gozzano («Socchiudo gli occhi estranio ai casi della vita; sento fra le mie dita la forma del mio cranio»), il più grande poeta italiano del Novecento, per come la vedo io, se non fosse che 24 anni fa sono andato a sentire un signore romagnolo, magro, elegante, con gli occhiali, i capelli bianchi e dei modi gentili, Raffaello Baldini.
[Oggi sulla Stampa c’è un pezzo che ho scritto io su Chiudo la porta e urlo, che esce domani. Stasera, alle 19, sul mio profilo Instagram, ne parlo ancora]