Via delle Trincea
Jouksuhaudantie in sei punti (e una premessa)
0. Il senso
Probabilmente non ha molto senso che io scriva una prefazione (o una postfazione, adesso vediamo) a un romanzo finlandese contemporaneo, per una serie di motivi, primo tra tutti il fatto che non so il finlandese, secondo tra tutti il fatto che non ho mai scritto prefazioni, o postfazioni, se non a classici della letteratura, ma in questo caso, quando me l’hanno chiesto, sono stato contento, perché di Kari Hotakainen avevo letto un romanzo, Colpi al cuore, Come fu girato il Padrino (Sydänkohtauksia, eli kuinka tehtiin Kummisetä, in originale), con il quale mi era successa una cosa stranissma, e abbastanza breve da poterla raccontare.
Ero arrivato in stazione in treno, di notte, e mi mancavano cinquanta pagine per finire il romanzo, avevo preso un taxi e sul taxi avevo continuato a leggere e avevo pensavo Che bello, adesso arrivo a casa lo finisco, e poi, una volta a casa, avevo cercato Colpi al cuore, non ce l’avevo più, l’avevo lasciato sul taxi.
Un dispiacere. Il giorno dopo sono andato in libreria l’ho ricomprato.
Non era poi tanto strana, come cosa.
1. Tutto il giorno
Il protagonista di un romanzo di Thomas Bernhard, uscito nel 1982 e intitolato Cemento (Beton, il titolo originale), Rudolf, un studioso di Mendelssohn Bartholdy costretto a prendere grandi quantità di Prednisolon per combattere un morbus boeck riacutizzatosi per la terza volta, a un certo punto del romanzo scrive: «Col tempo mi sono completamente barricato in questa cripta che è la mia casa. Al mattino mi alzo nella cipta e tutto il giorno giro qua e là nella cripta e a tarda notte mi metto a dormire nella cripta» .
Mi sembra che quella condizione, nel 1982, fosse una condizione, non so come dire, quasi di privilegio: Rudolf, come quasi tutti i protagonisti dei romanzi di Bernhard, gode di una disperazione privilegiata, viene da dire.
Il protagonista del romanzo di Hotakainen che state forse per leggere, o che avete forse appena letto (come ho già detto non mi capita quasi mai di scrivere prefazioni o postfazioni, non so bene come cavarmela, che senso dare a un discorso che non dev’essere né un riassunto né una recensione, ma una postfazione, o una prefazione, a un certo punto avevo pensato anche a una mediumfazione ma poi ho lasciato perdere), il protagonista di Via della Trincea (Jouksuhaudantie, nell’originale, che lingua, dev’essere, il finlandese) si trova in una condizione per nulla privilegiata, una condizione nella quale ho l’impressione si trovino un gran numero di suoi coetanei non solo in Finlandia.
Matti Virtanen, magazziniere, gran fumatore, maratoneta, cuoco provetto, esperto di rock e di hockey e di molte altre cose, prima di essere lasciato, «all’inizio d’aprile, nel buio di un venerdì sera, nel bel mezzo del match contro la Svezia» dalla moglie e dalla figlia, era uno che si alzava nella cripta e tutto il giorno girava qua e là nella cripta e a tarda notte si metteva a dormire nella cripta, come succede oggi a molti di quelli che hanno più o meno la sua età, e non solo in Finlandia.
2. Niente di brutto
C’è un passo, in Lezioni e conversazioni, di Wittgenstein, in cui Wittgenstein dice che l’esperienza di sentirsi al sicuro, l’impressione che niente di brutto ti possa succedere, è un’esperienza etica, soprannatuale, che non si può trasmettere con il linguaggio, perché «L’etica, se è qualcosa, è soprannaturale, mentre le nostre parole potranno esprimere solamente fatti».
Matti Virtanen, nella sua vita nella cripta, cripta nella quale era stato spinto, forse, da un desiderio di sicurezza («Sono al sicuro nella mia stanza, – scrive Wittgenstein, – dove non posso essere travolto da un autobus» ), finisce per fare l’esperienza inversa, altrettanto etica e altrettanto soprannaturale, l’esperienza di chi ha l’impressione che non gli possa succedere niente di bello.
Secondo la testimonianza della moglie Helena, quella che se n’è andata nel bel mezzo del match contro la Svezia, Matti «non faceva che peggiorare di giorno in giorno, guardava la tele, leggeva il giornale, ascoltava la radio e tirava conclusioni strampalate da tutto quel che vedeva e sentiva. Cucinava, mezzo morto, alle prime luci dell’alba, dopo aver cullato per ore una bambina febbricitante. Io passavo le mie serate ai corsi di ginnastica postnatale e alle sedute di prevenzione della depressione post partum. È stato lui a volersi accolare quel compito. Non aveva che da dirlo se non gli andava».
Solo che a lui, evidentemente, andava. Era a lei, che non andava.
3. La velocità dei pini
«Mi ha detto, – scrive Matti Virtanen, – non so più esattamente in che termini, che ero un patetico lavapiatti, un perdente privo di ambizioni, capace solo di starsene rintanato in casa a cuocere a fuoco lento il suo rancore come uno stufato. Perché non uscivo con qualcuno, una buona volta, invece che ammuffire lì dentro a sentire musica rock? Perché non mi mettevo un po’ in prima linea?
E non si sarebbe fermata qui, se non gliel’avessi impedito. L’intenzione era di colpirla sulla bocca, ma l’avevo mancata. Il pugno era andato a beccarla esattamente alla giuntura tra la tempia e lo zigomo, Helena aveva perso l’equilibrio battendo la testa sullo spigolo dell’armadio e si era accasciata a terra».
Non voglio raccontare le conseguenze di questo pugno («i pugni, – scrive Hotakainen, – crescono alla velocità dei pini, ci vogliono vent’anni per il pieno sviluppo»), perché racconterei il romanzo, che credo non sia la cosa da fare in una prefazione (e neanche in una postfazione, probabilmente).
Voglio invece dire una cosa di quella parola che ha usato Helena per parlare di suo marito, di quel participio presente, perdente, che può essere anche aggettivo, e anche sostantivo. Che in italiano, oltre a designare chi ha perduto, scrive il dizionario, io direi perso, designa, per esteso, chi non ha la possibilità di affermarsi in una attività, in un ambito o nella vita, e, in senso figurato, chi è deluso, frustrato (spec. in amore, recita il Grande dizionario Italiano dell’uso ideato e diretto da Tullio De Mauro, che registra anche il derivato Perdentismo).
Ecco, io vorrei parlare di quelli, dei perdentisti.
4. Un patetico lavapiatti
Quest’estate ho fatto un viaggio in macchina abbastanza lungo con il mio amico Daniele Benati.
Daniele è un bravissimo traduttore, ha tradotto diversi autori anglosassoni, Tony Cafferky, James Joyce, Flann O’Brien, Ring Lardner, e ha fatto tra l’altro una versione in dialetto reggiano di un racconto di Beckett che quando la si sente, letta ad alta voce, vien da pensare che il racconto Beckett l’abbia scritto proprio in dialetto reggiano; mi viene in mente un mio conoscente armeno al quale, da ragazzo, leggevano Shakespeare in armeno, e che, da grande, si è molto meravigliato quando ha scoperto che Shakespeare era inglese, e non armeno, e che, ancora oggi, pur non avendo mai imparato l’inglese, è convinto che i testi di Shakespeare in inglese non possano essere così belli come quelli in armeno che gli leggevano quand’era un ragazzo.
Daniele, a un certo punto, nel corso del viaggio, non mi ricordo perché, ha parlato della traduzione della parola inglese Loser, che secondo lui non è quella che viene spontanea, Perdente, che suona così strana, io credo che per le nostre strade Sei un perdente sia un’offesa che non ha mai risuonato, così come You’re cheap, che, mi dice una mia amica che ha vissuto a Boston, è, tra gli americani, un’offesa gravissima, tradotto alla lettera in italiano, Sei a buon mercato, suona più come un complimento, che come un’offesa.
Invece la parola giusta per tradurre Looser, secondo Daniele, è Sfigato, che magari a prima vista potrebbe sembrare una parola poco adatta, alla letteratura, invece.
5. Affettivo
Alla fine del 2008 è uscito, per i tascabili di Fandango, un libretto a cura di Matteo B. Bianchi intitolato Dizionario affettivo della lingua italiana.
Questo libretto è organizzato come un dizionario, e consta, come si dice, delle definizioni che 330 autori italiani viventi hanno dato della parola, tra tutte le parole italiane, che sentivamano più, non so come dire, vicina (ce ne sono quindici che hanno scelto una parola che aveva già scelto un altro, quindi le parole in totale sono 315).
Carlo Fruttero ha scelto la parola Sfiga, e di quella parola ha dato questa definizione:
SFIGA
Dalle misere macerie lessicali del ’68 emerge, unico fiore superstite, questo geniale termine di italiano “volgare”. La “s” privativa esalta la cosa negata, massimo bene dunque dell’uomo, origine del mondo. Un vero e proprio omaggio stilnovistico, che il Boccaccio avrebbe sicuramente usato e con ogni probabilità lo stesso Alighieri.
6. Ecco
È un romanzo così, è un romanzo così, è la storia di uno che, dai suoi padri, ha avuto in eredità «il loro modo di parlare a monosillabi e il loro sacro terrore delle donne».
È la storia di un peredentista, di uno a cui non può succedere niente di bello, di uno sfigato, dopotutto. Che uno potrebbe pensare Ma perché devo leggere la storia di uno sfigato? E gli si potrebbe rispondere Be’, Don Chisciotte. Il buon soldato Sc’vèik. Père Goriot. Bartleby, lo scrivano. Il maestro (il fidanzato di Margherita). L’agrimensore. Quello del castello. Di Kafka. Oblomov. Mamma mia Oblomov. Čičikov. Mamma mia Čičikov. E via discorrendo.
Ed è un romanzo pieno di storie, come quella dei reduci del fronte domestico, o quella di Dio che non ha creato l’uomo perché fumi, o quella di una casa in cui, nel 1948, si è deciso che «la poltrona più profonda andava bene là, vicino alla finestra, che quando si è seduti si vede chi arriva attraverso il vetro». E tutto è rimasto così per più di cinquant’anni. «E il tavolo è sempre lo stesso, ridipinto quattro volte. E ogni stanza ha un suo odore».
[Postfazione a Kari Hotakainen, Quel pasticciaccio di Via della Trincea, traduzione di Nicola Rainò, Milano, Iperborea 2009, pp. 264, 17 euro (esce in novembre)]