Un’introduzione

lunedì 29 Agosto 2011

Dopo aver tradotto un libro come questo, si ha l’impressione di non avere niente da dire, se non delle banalità; riferirsi, per esempio, alla modernità, di questo libro, sembra una cosa talmente scontata, risaputa, sentita, che, anche se è l’unica cosa che viene da dire, viene anche il dubbio che sia meglio tacere.
Viene in mente Giorgio Manganelli che di Oblomov diceva che è un libro “che non è lecito recensire. O lo conoscete – scriveva Manganelli, – e vi ha sedotto, e un recensore non può dirvi nulla, o non lo conoscete, e allora, per favore non perdete altro tempo con queste fatue righe, e andate a leggerlo”.
E dopo continuava, Manganelli, e diceva: “Non essendo uno slavista, e avendo letto il libro in modo irresponsabile e asociale, sono esentato da talune proposizioni altrimenti vincolanti, che vanno dall’insondabile anima russa, alla decadenza della borghesia di campagna, alla crisi morale di una società che anelava ancora occulte palingenesi”.
Ecco. Nemmeno io sono uno slavista, perché per essere slavisti bisogna conoscere, almeno, due lingue slave, e io ne conosco solo una, ma questo libro, però, l’ho tradotto, e quindi mi sento obbligato, in un certo senso, a rinunciare alla condizione felice di una lettura irresponsabile e asociale e a dire perlomeno qualcosa, e se poi dopo salta fuori che è una banalità, be’, sarà una banalità.
Nella 1859, subito dopo l’uscita di Oblomov, sulla rivista Il contemporaneo è stato pubblicato un celebre saggio di Nikolaj Dobroljubov, intitolato Che cos’è l’oblomovismo, e in questo suo saggio Dobroljubov parla di Oblomov, il protagonista di questo romanzo, come del principale rappresentante della serie di uomini superflui che avrebbero affollato, secondo Dobroljubov, la letteratura russa dell’ottocento.
Dobroljubov sostiene che Oblomov, «un uomo sui trentadue-trentatré anni, di media statura, di piacevole aspetto, con degli occhi grigio-scuri e l’assenza di qualsivoglia idea precisa, di qualsivoglia capacità di concentrazione nei tratti del viso», un uomo il cui «pensiero vagava come un libero uccello sul viso, svolazzava sugli occhi, si posava sulle labbra semiaperte, si nascondeva nelle pieghe della fronte e poi spariva del tutto, e allora tutto il viso splendeva di un uguale candore di spensieratezza», e «dal viso la spensieratezza si trasferiva agli atteggiamenti di tutto il corpo, perfino alle pieghe della vestaglia», secondo Dobroljubov, dicevo, il personaggio di Gončarov incarna perfettamente il tipo sociale dell’uomo superfluo, tipo sociale che, a parere di Dobroljubov, prospera, a metà dell’ottocento, in terra russa e ne popola la stupefacente letteratura.
«È già stato notato da tempo che tutti i protagonisti dei maggiori racconti e romanzi russi, – scrive Dobroljubov, – soffrono per il fatto che non vedono che scopo abbia la propria vita e non trovano, per sé, un’occupazione».
Dobroljubov poi ci dice chi sono questi protagonisti: l’Onegin dell’Evgenij Onegin di Puškin, il Pečorin dell’Eroe dei nostri tempi di Lermontov, il Rudin del Rudin e il Čulkaturin del Diario di un uomo superfluo di Turgenev, il Negrov del Di chi è la colpa di Herzen, il Tentetnikov della seconda parte delle Anime morte di Gogol’ eccetera eccetera.
«Tutta gente per bene, – direbbe Daniil Charms, – e non sanno farsi una posizione».
Come mai?
Adesso, è difficile dirlo, ma una delle risposte possibili, una delle cause possibili di questa situazione risiede nel fatto che quella generazione, i russi colti della prima metà dell’ottocento, era stata forse la prima generazione di russi ad avere contatti frequenti con l’occidente, avevano vinto Napoleone e si erano spinti fino a Parigi, e avevano letto gli illuministi, e avevano frequentato le lezioni dei filosofi tedeschi, e, le teste piene di libertà, uguaglianza, fratellanza e idealismo, la notte stellata sopra di loro, la forza morale dentro di loro, erano tornati in Russia, la loro patria, dove c’era ancora la servitù della gleba, e uno stato corrotto e arretrato e avevan scoperto che non potevan far niente.
Tutto il loro sapere, tutta la loro scienza non serviva a niente, perché c’era un apparato statale piramidale, con a capo lo zar, che decideva lui, cosa bisognava fare, loro dovevano solo servire, si diceva così, vale a dire ubbidire, e, se non volevan servire, ritirarsi in campagna e non dare troppo fastidio, mi scuso per la banalità del riassunto.

Allora, forse mi sbaglio, ma proviamo a immaginare un ragazzo, oggi, immaginiamo che sia di Carpi e si chiami Claudio, immaginiamo che sia appassionato di filosofia, che faccia una tesi sulla Città del sole, di Campanella, o, meglio, su Spinoza, sull’Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico di Spinoza, immaginiamo che impari il latino, e l’olandese, e immaginiamo che dopo due anni che ci lavora discuta la tesi, centodieci e lode, va bene, ma dopo?
Proviamo a chiederci cosa interessa, alla società in cui vive questo Claudio di Carpi, o di Mirandola, è lo stesso, che cosa interessa alla società che Claudio troverà il mattino dopo la sua laurea, quando esce di casa, oltre la soglia del suo appartamento, che cosa interessa, a questa società, della Città del sole, di Campanella, o dell’Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico, di Spinoza, o delle Diatribe di Epitteto, faccio per dire. Che utilità ha, Claudio di Mirandola, per quella società, cosa può fare, in quella società? Ha davanti due possibilità: o si mette a servire, o si mette in un angolo e cerca di non rompere troppo i maroni.

Allora, forse mi sbaglio, ma prendiamo per esempio questo dialogo:

– Be’, e c’è qualcos’altro di nuovo in politica? – chiese Oblomov dopo aver taciuto un po’.

– Sì, scrivono che la sfera terrestre si raffredda sempre di più: una volta o l’altra ghiaccerà tutta.

– Ma dài! Ma è forse politica, questa?

Alekseev era mortificato.
– Dmitrij Alekseič all’inizio ha parlato di politica, – si giustificò, – poi è andato avanti a leggere e non ha detto, quando finiva la politica… Questa era già letteratura, lo so.

– E cosa ha letto, di letteratura? – chiese Oblomov.

– Ha letto che gli autori migliori sono Dmitriev, Karamzin, Batjuškov e Žukovskij…

– E Puškin?

– Puškin lì non c’era. Anch’io ho pensato: ma perché non c’è? Eppure è un zenio, – disse Alekseev pronunciando la g come una z.


oppure prendiamo questa descrizione del vecchio barone, che

Dava giudizi su tutto: e sulla virtù, e sul carovita, e sulla scienza, e sulla società, e su ogni cosa era netto; esprimeva il proprio parere con delle frasi chiare e compiute, come se fossero delle sentenze già pronte, trascritte per un qualche corso e fatte circolare nel mondo per incentivare la pubblica istruzione.

Ecco, forse c’è un motivo, se le giornate e i personaggi che riempiono il libro di Gončarov ci sembrano, in qualche modo, familiari.
Poi, un’ultima cosa: oggi è stranissimo, pensare che nel 1859, Dobroljubov, in quel saggio lì, Che cos’è l’oblomovismo, dava una notizia, praticamente, di stare attenti, che era uscito un romanzo che valeva la pena di leggerlo, e, non lo so, a me vien da pensare che è bello, far delle cose del genere.