Un’intervista

mercoledì 27 Ottobre 2010

Il libro non è una guida ma “quasi” e invita ad andare in bicicletta, non fosse altro che per perdere peso…e tu, sei un amante della bicicletta? Hai avuto qualche disavventura o avventura sulle due ruote degna di nota?

Non direi che il libro inviti ad andare in bicicletta; è un libro dove l’io narrante, quello che parla, è uno che si muove praticamente solo in bicicletta, e il protagonista è un ex meccanico di biciclette, ma a me sembra un romanzo che è andato dove ha voluto lui e dietro il quale non c’era nessun intento, non so come dire, didattico. Non direi nemmeno di essere un amante della bicicletta, ma solo perché la locuzione «essere un amante di» non mi viene da usarla. Forse mi verrebbe più da dire che sono un odiante delle macchine, ma non sarebbe vero neanche quello. Sono uno che va in bicicletta perché si trova bene ad andarci, e che delle volte pensa che se non avesse la bicicletta peserebbe 120 chili.

Dovendo scrivere davvero una guida di Bologna puoi indicarmi almeno tre luoghi da raggiungere o percorrere in bicicletta? E perché?

Non mi sembra di avere mai fatto delle passeggiate, in bici, non mi sembra di avere mai girato così, per diporto, come si dice, sono sempre andato in giro per necessità, e i posti che a me piacciono di più, ma non è che li consigli, sono una piccola zona della città che si chiama Pontelungo, vicino a Borgo Panigale, ma di qua dal ponte, e una stradina che c’è dietro il deposito degli autobus di via Battindarno.
Il Pontelungo per me è un posto stranissimo: è proprio sul fiume, c’è la salita del ponte e lo slargo del fiume e un’idea che non so definire bene; c’è la via Emilia che si apre appena e poi si richiude subito alla vista per la salita del ponte, e uno delle volte ha l’impressione che anche il cielo, si apra. Non credo sia vero, ma a me ogni tanto vien da pensare che non sia un caso che, come racconta Bacchelli, sia proprio lì, al Pontelungo, che doveva cominciare, nel luglio del 1874, la rivoluzione anarchica di Bakunin e Andrea Costa. Dietro al deposito di via Battindarno invece c’è un idea di abbandono che a me ricorda un po’ l’Unione Sovietica per come l’ho conosciuta io all’inizio degli anni novanta, e a me piace molto, ma non consiglierei a tutti di andarci.

Almeno un luogo da evitare?

La tangenziale.

Perché dici che le bici erano come i cani? E Non lo sono più?

Una volta Zavattini ha detto che nel suo paese, a Luzzara, la gente si portava dietro la bici anche quando andava a piedi, come se fosse un cane e io, che sono di Parma, mi sono ricordato che a Parma, quarant’anni fa, era la stessa cosa: tutti i funerali che ho visto con dei signori in processione con la bici a mano, e mi sono immaginato che fosse la stessa cosa anche a Bologna, quarant’anni fa, e sono quasi sicuro che fosse così, e oggi invece no, mi sembra che non sia più così.

Ma un ciclista è sicuro in città o lungo la via Emilia?

No, credo di no, credo che andare in bicicletta in città sia un’attività pericolosa. Molte delle cose che facciamo sono pericolose. Ho appena traslocato, e, nel montare le librerie, ho rischiato per due volte di cadere dalla scala (avevo un trapano in mano). Ieri ho stirato otto camicie, e ho avuto in mano per quaranta minuti un ferro incandescente. Anche quella, a pensarci, è stata un’attività pericolosa. Così, quando faccio la pasta, con tutta quell’acqua bollente, anche quella, a pensarci, è un’attività pericolosa. La settimana scorsa ho visto, ai Teatri di vita, una ripresa di uno spettacolo del Teatro delle Albe, Stranieri, da un testo di Antonio Tarantino, che avevo visto l’anno scorso a Ravenna. Lì, il protagonista, non esce mai di casa, trasforma la sua casa in un bunker, fa la vita più sicura che si possa immaginare. Però alla fine muore.

Bologna che cambia: fino a poco tempo fa giravano bici scassate (molte rubate e comprate dai “tossici “in pIazza Verdi) ora hanno tutte il cambio shimano: che cosa è successo?

Non so, io vedo in giro anche molte bici scassate, ancora oggi.

Che cosa ci fa Gianni Morandi nel tuo nuovo libro?

Fa il vicino di casa.

Ormai è assodato che esiste uno “stile Paolo Nori” che ascolta le voci, comprese le sue, e le “trascrive” con la stessa intensità, la stessa emozione delle parole vive, pronunciate. Che voci hai ascoltato in questo romanzo?

Intanto grazie. Poi mi vien da dire che qui la voce principale è quella dell’ex meccanico di biciclette, che si chiama Benito, e ha quasi ottant’anni, ed è quella che ha fatto il libro, mi sembra, ed è saltata fuori quasi germinando tutta dalla prima frase: «Non so perché i giapponesi mi odiano», e questa frase mi è venuta in testa dopo aver letto, e riletto una seconda volta, La fondazione, di Raffaello Baldini, nella traduzione di Giuseppe Bellosi, che è uno dei libri più belli che io abbia letto in questi ultimi anni.

Cosa c’è che non hai ancora raccontato del tuo mondo, ma tieni lì… e aspetti solo il momento giusto per raccontarlo?

È una domanda difficile, mi vien da dire che qui non c’è niente, ma è così tutte le volte che finisco un libro, che ho l’impressione che dopo ci sia il vuoto, e non è, devo dire, una brutta impressione.

[Intervista di Luciana Cavina che dovrebbe essere uscita oggi sul Corriere-Bologna]