Un’intervista

martedì 11 Ottobre 2016

Redazione SUR: Spesso chi desidera avvicinarsi alla traduzione, oltre a una grande passione per la letteratura, ha studiato una o più lingue straniere. Conoscere una lingua a un livello avanzato non è però sinonimo di essere dei buoni traduttori. Da cosa dipende una buona resa del testo, oltre che da una conoscenza approfondita della propria lingua madre? Studio, letture o una dota innata?
Paolo Nori: Non ne ho idea e non sono per niente sicuro di essere capace di fare in un modo decente una cosa così difficile come tradurre un testo letterario così complicato come, per esempio, Anime morte di Gogol’, o La morte di Ivan Il’ič di Tolstoj, o La figlia del capitano di Puškin, o Moskva-Petuški di Erofeev o Zoo di Chlebnikov. So che me l’hanno fatto fare, e mi ricordo che quando ho capito che me lo facevano fare davvero ero stupefatto. Qualche anno fa ho letto un saggio di Agamben (Il fuoco e il racconto) che mi è rimasto impresso, e tra le altre cose che Agamben diceva nel Fuoco e il racconto diceva che un poeta è uno che è in balia della propria impotenza; credo che qualcosa di simile possa capitare a un traduttore.

RS: Tradurre autori viventi vs tradurre classici. Quanto è importante il confronto con l’autore? Quando non è possibile contattarlo come cambia l’approccio al testo?
PN: Non ho mai tradotto autori viventi.

RS: Hai mai riletto la tua prima traduzione? Cosa si prova a rileggersi dopo tanti anni?
PN: La mia prima traduzione dal russo è un’antologia di Daniil Charms che si chiama Disastri, la rileggo continuamente in pubblico, anche oggi, al festival letteratura di Mantova, in occasione della presentazione di tre libri sul Re della torta di carote di Yocci. Ne ho fatto anche una lettura pubblica che ho messo in rete, qualche anno fa, la si trova qui clic e qui clic. Mi piace molto leggere in pubblico Charms, lo faccio tutte le volte che posso, anche dopo tanti anni.

ES: Quanto è o non è riconosciuto il mestiere del traduttore? In un mondo ideale, quale prassi dovrebbero adottare gli editori per tutelare e valorizzare la categoria?
PN: Mi sembra che scrivere o tradurre dei libri sia una cosa che determina una relazione così personale, con lo strumento che si usa, cioè la parola, che faccio fatica, in questo campo, a ragionare in termini sindacali; limite mio, probabilmente, ma credo che il lavoro del traduttore (come molti altri lavori, probabilmente) non sia nobile in assoluto, ma possa essere nobile quando e se è fatto bene. Per via del mondo ideale, non riesco a ragionare nemmeno in termini di mondo ideale, anche questo è un limite mio, probabilmente; mi succede però ogni tanto di avere a che fare con libri che, negli apparati, citano libri tradotti senza citare i traduttori e mi sembra segno della grossolanità del lavoro di redazione. Mi vengono da dire solo due cose, che mi sembra sensato che il nome del traduttore sia citato in copertina (non in quarta di copertina, in prima) e che il lavoro venga pagato, sempre, qualsiasi tipo di lavoro, anche quello del traduttore.

ES: Se non facessi lo scrittore e il traduttore, cosa faresti?
PN: Non ne ho idea.

ES: Consigli per un aspirante traduttore (fare un altro mestiere non vale come risposta).
PN: Ho cominciato a tradurre in un modo talmente strampalato che non mi sembra sia sensato che io dia dei consigli.

ES: Quanto il tuo essere scrittore influisce sul tuo modo di tradurre e viceversa?
PN: C’è una cosa che ha scritto Šklovskij in un libro che si intitola La mossa del cavallo che dice così:

Se l’uomo cercasse di tener conto di tutto, assomiglierebbe al millepiedi della favola indiana.
«E cos’è questa favola del millepiedi?» chiesero quelli che erano diventati idioti. «C’era un millepiedi e aveva esattamente mille piedi o giù di lì»; correva svelto, e la tartaruga l’invidiava.
La tartaruga disse al millepiedi:
«Come sei saggio! Come fai a indovinarle tutte, e come fa a bastarti il comprendonio per sapere quale posizione deve occupare il tuo novecentosettantottesimo piede quando porti avanti il quinto?»
Il millepiedi dapprima si rallegrò e insuperbì, ma poi cominciò davvero a chiedersi dove si trovasse ogni suo piede, mise su la centralizzazione, la cancelleria, la burocrazia, e finì che non poté più muoverne nemmeno uno.
Allora disse: «Aveva ragione Viktor Šklovskij quando diceva: la più grande disgrazia del nostro tempo è che regolamentiamo l’arte senza sapere che cosa sia.
La più grande disgrazia dell’arte russa è che non le si permette di muoversi organicamente come fa il cuore nel petto dell’uomo: viene regolamentata come il movimento dei treni»
(la traduzione di Maria Olsoufieva, l’edizione Bari, De Donato 1967, le pagine 11 e 12).

Ecco, io, quando scrivo, o quando traduco, cerco di non capire come scrivo e come traduco perché ho l’impressione che, se cominciassi a capirlo, quello che faccio mi piacerebbe un po’ meno.

RS: C’è qualcosa in comune tra la lingua di Bassotuba e quella di Tolstoj?
PN: Forse una cosa in comune c’è, la passione per le ripetizioni, forse.

Paolo Nori, nato a Parma nel 1963, abita a Casalecchio di Reno e scrive dei libri

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