Un’intervista

domenica 5 Febbraio 2012

[Di Dario Pappalardo, oggi su Repbblica]

Che effetto le fa sapere che i romanzi del ciclo di Learco Ferrari vengono ripubblicati? Ha intenzione di scrivere ancora di lui? Tutti i suoi lettori lo considerano un alter ego dell’autore. Anche lei?

Sono contento della riedizione di questi romanzi per Marcos y Marcos, ma non credo che scriverò altre cose con Learco Ferrari come protagonista. Per via dell’alter ego, quando ho letto la sua domanda mi sono chiesto cosa intendeva di preciso, con alter ego; allora sono andato a vedere su wikipedia, e ho trovato: Il termine viene comunemente usato nell’analisi letteraria per descrivere personaggi che sono psicologicamente opposti l’uno all’altro. Ecco, in questa prospettiva sì, considero Learco Ferrari il mio alter-ego. Poi però mi sembrava una definizione strana, sono andato sul De Mauro ho trovato che alter ego, in letteratura, è un personaggio che rispecchia specularmente la personalità del suo autore (es: Jacopo Ortis è l’alter ego di Ugo Foscolo). Ecco, a pensarci, anche in questa prospettiva, considero Learco Ferrari il mio alter-ego.

In Francesca, ricorre una certa insofferenza per festival letterari, presentazioni e saloni del libro. È un sentimento suo o solo di Learco e di Giordano Maffini?

È un sentimento che, quando ho scritto il romanzo, probabilmente condividevo con Learco (e con Giordano Maffini), ma non è che mi ricordi benissimo.

A proposito di nomi. Come sceglie quelli dei suoi personaggi?

Learco l’ho cercato sul dizionario dei nomi di Emidio de Felice. A un certo punto è saltato fuori Learco e mi è sembrato bello, e mi è venuto da abbinarlo a Ferrari, che a Parma, che è il posto dove sono nato e dove allora abitavo, è forse il cognome più diffuso. I nomi credo siano importantissimi. Cagnolati, per dire, che è un cognome che usa Daniele Benati in Silenzio in Emilia, è già un piccolo mondo. Uno che si chiama Cagnolati, è come se avesse una responsabilità: tutto quello che fa non l’ha fatto uno qualsiasi, l’ha fatto Cagnolati.

Qual è il suo rapporto con la lingua? Quanto è difficile arrivare a scrivere i suoi flussi di coscienza che mi pare restituiscano più che una lingua parlata, una lingua del pensiero, un lessico tutto interiore…?

Quando ho cominciato a scrivere, scrivevo in un modo un po’ diverso: cercavo, in astratto, il bello stile, e, se la lingua veniva macchiata da componenti locali, mi sembrava un errore, una macchia, appunto. Poi ho incontrato un gruppo di persone che facevano una rivista, che si chiamava Il semplice, che facevano delle riunioni dove leggevano i loro racconti ad alta voce e le loro cose, lette ad alta voce, sia come intonazione che come lessico che come sintassi, denunciavano la provenzienza di quello che le aveva scritte. Mi sono piaciute molto, quelle cose, e sono andato a rileggere quello che avevo scritto io, e mi sono accorto che io, quando scrivevo, volevo che si vedesse che ero uno che aveva studiato. Magari le mie cose non sono belle, pensavo, però almeno si veda che sono uno che è laureato e ha fatto sette esami di filologia e sa scrivere in un italiano impeccabile. Ho provato allora a smettere di cercare di distillare una lingua astratta e alta, e ho cominciato a provare a lavorare con una lingua concreta, e il risultato è stato che ho cominciato a sentire la lingua che si parlava intorno a me, nei bar, nelle tabacchierie, nelle sale d’attesa; tutte le manifestazioni linguistiche che incontravo nel corso della mia giornata, erano potenzialmente dei pezzi di romanzo, ed era una situazione che mi piaceva di più di quella precedente, nella quale io avrei dovuto essere il genio che, nella sua stanzetta, distillava capolavori di stile e di pulizia.

Lei partecipa alla Piccola scuola di arti narrative di Marcos y Marcos. Ma si può insegnare a scrivere?

Più che insegnare a scrivere, io provo a spiegare il modo in cui i libri mi aiutano a vedere meglio il mondo. Sono proprio come delle lenti, e gli scrittori degli oculisti, in un certo senso. Ecco questo a me piace.

Come utilizza Internet, i social network…?

Un po’ a tentoni.

Torna spesso in Russia? Cosa significa per lei?

Non ci torno da un po’ di tempo. Una volta, qualche anno fa, ero a San Pietroburgo, sulla Prospettiva grande dell’Isola Vasilevskij, e dovevo andare in biblioteca, e aspettavo il filobus numero 10, e pioveva, e quando il filobus è arrivato sono entrato e ho visto che sul soffitto, del filobus, c’era un buco, e pioveva dentro. Allora loro cosa avevano fatto? Avevano fatto un buco anche sotto, sul pavimento, alla stessa altezza di quello che c’era sopra, e la gente era dappertutto tranne che in quel cerchio lì di mezzo metro di diametro, e l’acqua entrava da sopra e usciva da sotto, e il filobus andava, e per me quella è la Russia, se si capisce.

Sta lavorando a un nuovo romanzo?

Sto lavorando da un anno circa a un romanzo che si intitola La banda del formaggio.

Ultima domanda: ha conosciuto davvero la figlia di Silvan?

Sì.