Una Wolkswagen color bronzo

giovedì 1 Luglio 2010

fruttero

Nel libro di Carlo Fruttero Mutandine di Chiffon (Mondadori 2010, 219 pagine, 18 euro e 50), che ha come sottotitolo Memorie retribuite, c’è un capitolo intitolato Night of the Telegram nel quale si racconta delle reazioni che scatenò, negli uffici dell’Einaudi, dove Fruttero lavorava, la notizia dell’invasione russa d’Ungheria. Si resta un po’ stupiti, nel vedere che Fruttero, che quasi niente dice, in questo libro, della seconda guerra mondiale, dedica alcune pagine agli avvenimenti di Budapest, alla ricerca frenetica di notizie, alla convocazione di una segretaria russa, la signorina Dridso, per decifrare quel che dice Radio Budapest, alla scoperta che l’ungherese non è un lingua slava, alla successiva convocazione del germanista Cesare Cases per tradurre i notiziari di Radio Vienna, all’incertezza sul che fare che si prolunga fino a sera, quando Fruttero e Giulio Bollati sono invitati a cena in collina nella «bella villa di un’amica».
Quando sono ormai al dessert, arriva una telefonata di Giulio Einaudi per Bollati, e Bollati sparisce nello studio, e dopo un po’ si affaccia a chieder della carta, e poi sparisce ancora, e gli ospiti restano in sala da pranzo a chiedersi cosa si dicano di là Bollati e Einuadi, e la radio è accesa e parla di «combattimenti, barricate, morti, colonne di profughi e nient’altro». Quando Bollati, dopo quasi un’ora, ricompare, ha in mano dei fogli. È un lungo appello all’ONU, che Fruttero, «anglista ufficiale della maison», deve tradurre in inglese. Fruttero protesta, «un’iniziativa perfettamente inutile, persino ridicola, se permetti», ma non c’è niente da fare, gli tocca tradurlo lì, seduta stante, e comincia a confrontarsi con le «ferme prese di posizione», le «fiduciose speranze», i «valori democratici», il «ripudio d’ogni violenza», il «sangue innocente», il «comune sforzo per la patria», e così avanti «da un clichè all’altro». Fruttero prova a «tagliare, condensare, rifare, fondere, ribaltare», ma Bollati ripristina sempre la versione originale, «il padrone (ma se non sa l’inglese), il padrone, ti dico, controllerà, andrà su tutte le furie, deve essere il più letterale possibile». Alla fine, – scrive Fruttero – «mi arresi, e composi (a quel punto, anzi, con perversa scrupolosità) un testo di cui ancora oggi ho confusamente vergogna».
Son le due del mattino, Fruttero vorrebbe andare a letto, ma la missione non è finita, bisogna spedire il telegramma. «Ma dove, a quest’ora?» chiede Fruttero. «Alla posta centrale, aperta ventiquattr’ore su ventiquattro, non lo sapevi?». Partono, sulla Volkswagen color bronzo di Bollati, attraversano la città e arrivano alla posta centrale, effettivamente aperta, e consegnano il telegramma all’impiegato di turno, che si mette a contare le parole e alla fine dice quanto costa. E Bollati si accorge che non ha abbastanza soldi. Chiede a Fruttero, lui tira fuori quel che ha, fanno il conto, non bastano. Fruttero propone di mandare il telegramma tronco, fino al punto in cui possono permetterselo, tanto chi vuoi che se ne accorga, ma Bollati si rifiuta, e dice all’impiegato di aspettare e parte, con Fruttero, con la sua Vokswagen color bronzo, e vanno sotto casa di Giulio Einuadi, che abita lì, poco lontano, a un piano rialzato, e cominciano a tirare sassolini contro la finestra della camera di Einaudi, che, però, «dopo una simile giornata di battaglia, doveva essersi addormentato come un carrista sovietico». Allora Bollati «incrocia le mani a staffa», Fruttero si toglie le scarpe, si issa sulle mani di Bollati, e si mette a picchiare alla finestra, e dopo un po’ appare Giulio Einaudi, «con un’aria appena stupita in un bel pigiama celeste». Guarda giù, li vede, e non dice niente. Fruttero salta a terra, Bollati spiega, Einaudi, senza dire niente, sparisce nel buio della stanza, riappare coi soldi, e senza dire niente, chiude la finestra e torna a letto.
Si è rimasti un po’ stupiti, dicevo, nel vedere l’enfasi che gli avvenimenti di Budapest hanno preso in un libro di memorie concentrato sul tempo individuale, più che sul tempo della storia, sui colori, sui vestiti (memorabile, nel capitolo L’isola dei famosi, il confronto tra la giacca a quadrettini di Fruttero e il doppiopetto blu di Roger Caillois), ma alla fine vien da pensare che tutto quel discorso lì su Budapest, è stato fatto per arrivare al bel pigiama celeste di Giulio Einaudi.
E il libro è pieno di storie così, bellissime e marginali, storie di vestiti, di taschini, di «fumeurs obscurs», di pantaloni lunghi, di Remington nere, di corsi «dove la domenica non si vede un bar aperto», di «immacolate stanze», di Gauloises senza filtro, di cupaggine, di voci «gravi, ghiaiose», di caratteri «tradizionalmente schivi, retrattili», di «espedienti, trucchi, rappresentazioni mascherate» che sono «nei millenni il solo sollievo, l’unica, umile, momentanea sortita dal tremendo assedio della vita», quella vita che «a poco a poco ti fa capire che proprio non hai capito».

[uscito oggi su Libero]