Una raccomandata da Brescia
Tra le cose minuscole, insignificanti, che hanno una certa rilevanza nelle nostre giornate, sul nostro umore, sullo stato del nostro sistema nervoso, c’è la relazione con l’autorità, che, nel mio caso, non è quotidiana. Faccio un mestiere strano, lo scrittore, nel quale, in sostanza, comando io; non ho diretti superiori, e, nel caso non mi piacciano, o non mi convincano, ho la fortuna di poter rinunciare alle collaborazioni che mi vengono proposte.
Anch’io, però, come tutti, ogni tanto ho a che fare con l’autorità, mi è successo per esempio un paio di giovedì fa. Un paio di giovedì fa sono andato a far la spesa, son tornato a casa, ho trovato nella cassetta delle lettere un avviso di raccomandata.
Che son quelle cose che, a me, mettono in agitazione, come i bollettini delle tasse da pagare, che, se non le pago subito e le metto in un angolo della mia casa, poi quell’angolo diventa un angolo dal quale mi viene da stare lontano, come se fosse una parte dolorante, di casa mia.
Brescia CMP, c’era scritto. Atti giudiziari.
«Cosa avrò mai fatto, a Brescia?», mi sono chiesto. Io abito a Casalecchio di Reno, vicino a Bologna, e son degli anni, che non vado a Brescia, forse l’ultima volta è stato diciotto anni fa, a presentare un libro. «Non sarà, per caso», mi sono chiesto, «che ho scritto di qualcuno di Brescia che magari se l’è presa e mi ha querelato?». Sono vent’anni, che scrivo dei libri e degli articoli, che qualcuno mi quereli, dopotutto, non è impensabile. Anche uno che abita a Brescia, perché no? E mi è venuta un’idea strana.
Poco più di vent’anni fa, ho pubblicato il mio secondo romanzo, che si intitola Bassotuba non c’è, il cui protagonista, che si chiamava Learco Ferrari, era uno che aveva poco più di trent’anni e non riusciva a entrare nel mondo dei grandi (a lui sarebbe piaciuto che lo prendessero dentro come scrittore, cioè di mestiere voleva far lo scrittore), e siccome aveva avuto a che fare, nel suo percorso universitario, con un congruo numero di allievi del filosofo Gianni Vattimo, si era convinto che la resistenza del mondo al suo ingresso dipendesse da una congiura degli allievi di Vattimo, e, non conoscendo Vattimo, era andato in biblioteca per provare a capire che tipo era.
Da una foto pubblicata nel retro di un libro di Vattimo, gli era sembrato che a Vattimo piacesse bere, e la cosa gli era in un certo senso stata confermata dalla definizione che Vattimo dava di «Pensiero debole». Il pensiero debole (cito): «ha con dialettica e differenza una relazione che non è principalmente o soltanto di “superamento” ma piuttosto si definisce attraverso il temine heideggeriano di Verwindung, termine esso stesso comprensibile solo entro una visione “debole” di cosa significhi pensare».
A Learco Ferrari, questa definizione di Vattimo era sembrato il delirio di un alcolizzato; ma non aveva dato un giudizio definitivo, aveva detto forse.
«Forse (cito) bisogna indagare il Verwindung heideggeriano. Forse, se uno capisce il Verwindung heideggeriano, dopo gli si chiarisce tutto. Come bere un bottiglione di Amaro Averna. Chissà».
Comunque poi lui, Ferrari, dopo aver sfogliato questi libri redige una biografia di Vattimo, che, su richiesta dell’angelo custode (ha un angelo custode che si chiama Karmelo) riassume così: «Vattimo Giovanni, nato a Torino nel 1936, segno zodiacale: Cancro. A ventotto anni diventa professore di estetica all’università di Torino. Come abbia fatto, non si capisce: questo periodo della vita del Vattimo è avvolto nelle nebbie della creazione. Comunque egli, il Vattimo, fin dai primi tempi del suo insegnamento manifesta una insolita e smodata passione per le bevande alcoliche. E, in preda ai fumi dell’alcol, scrive cose incomprensibili. Dopo va a lezione e le legge ai suoi studenti. Gli studenti gli dicono Maestro, non abbiamo capito. Lui gli dice Dovete bere! Bere, dovete! Con lui, se non bevi, sei finito. Non c’è via di scampo. Agli esami, la prima domanda che ti fa è Cos’hai bevuto, stamattina? Quattro Campari, devi rispondere. Fammi sentire il fiato, dice. Non si fida. Qui sento del Sanbittèr, dice, altro che Campari. Torna quando avrai imparato a bere! Maestro, gli dice lo studente, non posso bere, ho dei problemi al fegato. Vergogna! Fuori da questa università! E così ha tirato su tutta una generazione di alcolizzati». Ecco.
Quando ho scritto queste cose, era la fine del 1998, non avevo mai incontrato di persona Gianni Vattimo e non avevo idea delle sue abitudini, non sapevo se bevesse o no, era un modo che mi piaceva di significare la paranoia del protagonista che credeva di essere vittima di una fantomatica associazione di allievi di Vattimo, e che ne pativa la presenza quotidiana (la sua fidanzata, la Bassotuba del titolo, l’aveva lasciato per un allievo di Vattimo).
Ma quando poi il libro è uscito per Einaudi Stile Libero, nel 2000, e quando l’ufficio stampa di Einaudi mi ha chiesto di fare una presentazione a Torino con Vattimo, io ho detto che l’avrei fatta volentieri, solo che poi, non ho sentito più niente, dopo qualche settimana ho chiesto «Ma la presentazione con Vattimo la facciamo?», e dall’ufficio stampa mi han detto «È meglio di no». Allora ho capito che a Vattimo il mio libro non era tanto piaciuto. E ho sperato, devo confessarlo, che Vattimo mi querelasse. Che una querela, devo dire, per un libro, soprattutto una querela immotivata, può essere una buona cosa, pensavo (e lo penso ancora). Non son mai riuscito, a farmi querelare, con i miei libri. E due giovedì fa, devo confessare, ho ricominciato a sperare. Perché Bassotuba non c’è, quel vecchio libro, nel febbraio del 2020, ventun anni dopo la sua prima uscita, uscirà per gli oscar Mondadori, e io ho pensato «Vuoi vedere che Vattimo, nel frattempo trasferitosi a Brescia, ha saputo della ristampa per gli Oscar Mondadori e, stanco di questa ventennale persecuzione, ha deciso finalmente di sporgere querela?». E giovedì sono andato in posta pieno di speranza solo che mi han detto che la raccomandata si poteva ritirare da venerdì. Solo che io venerdì ero a Milano e son tornato sabato e sabato pomeriggio la posta era chiusa e sono riuscito a andare a ritirare la raccomandata solo lunedì, dopo tre giorni che, nella mia testa, ripassavo la mia testimonianza difensiva al processo, dove avrei letto ai giurati la definizione del pensiero debole e avrei detto: «Voi la capite? Be’, spiegatemela, se la capite». Poi lunedì sono andato in posta. Era il primo lunedì del mese, c’era pieno di pensionati che «tiravano la pensione», come diceva mia nonna. Cinquantadue minuti di coda. Arrivato il mio turno, ho detto all’impiegata delle poste «Ho un atto giudiziario che viene da Brescia, chissà cos’è». «Le nostre raccomandate vengono tutte da Brescia, lì c’è il nostro centro di meccanizzazione», mi ha detto lei. «Ah», ho detto io. Ho ritirato la raccomandata, l’ho aperta lì, nell’ufficio postale. Veniva dal comune di Montechiarugolo. Bon avevo pagato il saldo della Tasi per la nostra casa di campagna nel 2015 (11 euro). E c’era un F24 da saldare entro 60 giorni. Importo dovuto, 26 euro. 11,48 dei quali per spese di notifica: la raccomandata. Che delusione.
[Uscito ieri sulla Verità]