Una città

domenica 21 Novembre 2010

Era intera, ma da poco, dieci anni, cosa sono dieci anni, non son niente, eran due giorni, per lavoro, cioè lavoro, in due giorni ho lavorato un’ora, era il duemila, tipo.
M’hanno portato in giro, cos’ho visto, i bar e un misto.
Moderna era moderna, ma restava qualche cosa che pensavi che era antica, e era pulita, ma aveva un che di vecchio, non nel fuori, come da noi, che da noi, fuori, va bene, ma dentro lustro, tutto nuovo, lì, non so se si capisce, lì anche dentro.
I bar, faccio un esempio, controsoffitti zero, specchi zero, e degli arredamenti ognuno fatto a modo suo, con la sua faccia, che ti veniva il dubbio che quei mobili, quella poltrona, lì, un po’ strappata, in alto, l’avevan presa vicino al cassonetto, era pulito, e andava bene, e era usato, non era nuovo, l’idolatria del nuovo, assente, ecco, forse era questo, il nuovo e il vecchio insieme.
Dopo non so.
Lo zoo, è famoso, ci son due libri, a me piace più il primo, le lettere d’amore, la metropolitana è bella, si gira bene, l’albergo, bello, piccolo, non mi ricordo il nome, con l’ascensore in legno, e il letto bianco, due tacchi rossi sotto i jeans, in prima fila, che io ho pensato Ma.
Molti italiani, mondanità, a cena fuori, insieme, che non sai cosa dire, e il giorno dopo in giro, con il traduttore, che mi ha portato in una strada, sembrava di essere in un altro posto, un posto grande, con quelle strade lì, grandi, con i palazzi grandi che ci sono dappertutto, sedici piani, diciannove.
Ero lì, sembrava di essere di là, più a oriente, in un posto che mi è piaciuto tanto, dove i negozi avevano ciascuno il proprio odore, dove di notte, in un quartiere dormitorio, periferia della periferia, se ti affacciavi ad un balcone del diciassettesimo piano, saresti poi rimasto lì a guardare tutta notte, quei palazzi alti, già tutti malandati, malcontenti, ciascuno con sotto la sua aiuola, piccolina, coi giochi per bambini, piccolini, col razzo di Gagarin, come un binco banco, con la scalettina, con il condotto per la spazzatura che manda su il suo odore, per le scale, e con la gente che, al mattino, venti sottozero, correva a torso nudo, con i minestroni, come colazione, con il semolino, con la carta igienica come bene rifugio, con le tue sigarette che valgono tantissimo, con un Mac Donald’s dove tu entri senza far la fila, e gli altri tutti in fila, conservano la plastica, da far vedere, con il telegrafo centrale, per telefonare, e con un bar, al quarto piano, che affaccia sopra al telegrafo centrale, con i camerieri che non ci sono mai, e puoi studiare e c’è un manuale che si chiama Ja učus’ i ljublju russkij jazyk, Io studio e amo il russo, come se solo chi lo amava lo studiava, e con la sensazione, bella, di non esser niente, non eri un russo, non eri un turista, non eri niente, parlavi poco, balbettavi, ti mimetizzavi, giravi a piedi per trovar la strada dove si sente odore di pettinatrice, Malaja Bronnaja, se non ricordo male, ogni bambino che passava poteva essere un bambino da romanzo, era bellissimo, ma era un altro posto, più a oriente, che qui non c’entra niente, qui dopo il treno che mi riporta a casa.

[Paolo Nori, Sei città, in Flavio De Marco Vedute, Collezione Maramotti, Reggio Emilia 2010, p. XII]