Una città
La prima volta che ci sono andato era allo stadio, avevo forse cinque anni, mio fratello sei.
Ci avevan dato due bandiere e quando hanno segnato, che avremmo dovuto forse sventolarle, abbiam sentito gridare così forte, un urlo disumano, abbiam preso paura.
Dopo, ma per degli anni, è stato solo stadio, che quella, a dire il vero, è un’altra cosa, in quel piazzale, lì, se mi chiedevano dicevo Ci son stato, non era vero che ci fossi stato.
Dopo son stato anche al palazzetto, sempre lì dentro, nel piazzale, quello che poi è crollato per la neve.
Adesso poi, non c’entra niente, a me viene da chiedermi che senso aveva.
Tutti quei movimenti, quei maglioni, le giacche a vento, gli autogrill, le attese, i biglietti, le corriere, le bandiere, i cuscinetti sopra cui sedersi, le colazioni, le prenotazioni, cerco un pensiero che ci fosse dietro e non lo trovo, ma prima, prima, per degli anni, io non l’ho mai cercato, cosa cercavo allora?
Era un bel modo, era bello, era un bel modo, ma per cosa?
Perché ci entrassi dentro ci son voluti poi degli anni, ho cominciato a andare in una biblioteca, specializzata, a prendere dei libri che poi mi son serviti, che ho usato ancora pochi mesi fa, e lì, non so, c’era poi tutto, e grigio, e verde, e strano, poi l’accento, però non so la gente, com’è fatta.
Un giorno, in centro, mi ero perso, vedo una donna, mi avvicino, Scusi, dico, le posso chieder un’informazione? e lei dice Dipende. Dipende? Come dipende? È un’informazione, mi son perso, ho bisogno di un’informazione. Dipende.
Ecco, a me, queste cose, mi allontano. Mi metto a correre e vado così forte che non mi vedon più. Il verde, il grigio, mi piacciono, ma preferisco il giallo, e la paura a me mi fa paura.
Poi ci son stato ancora, a lavorarci, e una delle prime volte che ci andavo, sopra la scale della metropolitana, mi viene incontro uno, mi guarda e dice Che Dio ti maledica.
Lì quello lo capisco un po’ di più, non me la sono presa. Lì quella lì, secondo me, è normale.
Ci ho lavorato, ci ho mangiato, ho anche dormito dentro a delle case, e poi una notte, avevo perso il treno, l’abbiam girata tutta, adesso tutta no, però sei ore, a piedi, sono poi lunghe, ma ho visto poco, il grigio, il verde, la testa piena di pensieri strani, quando pensavo di dover pensare, prima di fare, e ero già grande.
Adesso poi, ci vado spesso, insomma spesso, sei sette volte l’anno, a lavorare, quando succede adesso, ormai, è normale, è una città normale, la gente, un po’, la trovo sfortunata, ci son dei ristoranti che a guardarli, dalla vetrina, sono dei posti che, io non lo so, ma vien da dire che a mangiar costa dei soldi, ci sono questi posti, che la gente, la vedi lì, non sembrano contenti, come se stessero espiando una condanna, come se cenar fuori fosse una condanna e questo, non lo so, è il mio parere, conosco uno che lui fa il cantante, era venuto a stare dentro il giallo, è stato qui due anni e dopo ha detto Io torno indietro, al verde, al grigio, secondo lui qui stiamo troppo bene, non riesce a fare niente, lui, da queste parti.
Allora poi è tornato là, e non l’ho più visto.
[Paolo Nori, in Flavio De Marco, Vedute, cit., è uscito oggi su Gli altri]