Una città

martedì 23 Novembre 2010

Ci son stato una volta. C’era una piazza chiusa, un muro non intonacato, le seggiole di plastica. Bianche. Ho mangiato delle cose fritte, su una tovaglia di carta, di quella che usano per asciugare il fritto. Marrone. Ho dormito in un letto da bambini, in una casa deserta, avevo fame.
Sono ripartito il giorno dopo, in treno, un treno normale, solo un po’ più pieno del normale. Mi ricordo bene, non ho visto niente. Solo una piazza, delle sedie, una tovaglia, una stanza da bambini in una casa vuota. Dico tutto quel che so, non so praticamente niente. Non ci son mai più stato. Posso parlare di un’altra cosa?
Del posto dove sono nato. Che è una città così, non troppo grande, che a me, lo so che non è bello dirlo, piace tanto. Adesso non ci abito, ci vado poco.
Lì, a certe ore, c’è una luce, in strada, che se hai un umore che i pensieri ti permetton di guardare, ti sembra di nuotare, nella luce.
Lì, quando sei un bambino, che son le due del pomeriggio, che esci dal portone, dall’androne buio del condominio dove abitano i tuoi genitori, e apri il portone e entri nella luce, che è tempo – dalle due del pomeriggio fino a sera – e spazio, – da via Montebello in qua, tutto il quartiere – lì, tutti i giorni la promessa è così grande che vien da piangere, a pensarci.
Certe cose non si dimenticano, come diceva un vecchio e poi ti raccontava di una volta che aveva in mano dei mattoni e, dietro l’angolo, diceva, a un carabiniere, Vieni avanti, adesso.
E tu la piazza, le sedie, la tovaglia, la stanza da bambini in una casa vuota non le avrai dimenticate, ma se ti chiederanno parlerai di un’altra cosa, della città dove sei nato, dove saran successe delle cose poi anche dopo, non tanto tempo fa, quattro anni fa, davanti alle finestre dell’appartamento che avrai preso in affitto quando sarai tornato ad abitarci perché scappavi, scappavi via da un altro posto, forte, davanti alle finestre di quell’appartamento, al primo piano, avrai avuto un campo di calcetto, e certe sere ti sarai messo lì a guardare le partite, e una sera ci sarebbero state due squadre di immigrati, slavi, a sentire la parlata, e il portiere di una delle squadre, quello più vicino alle tue finestre, intanto che giocava fumava.

[Paolo Nori, Sei città, in Flavio De Marco, Vedute, cit., p. IV]