Una canzone

martedì 15 Novembre 2016

Nel momento in cui Egóruška stava guardando i volti dei dormienti, si era sentito d’un tratto un cantare sommesso. Da qualche parte, poco lontano, una donna cantava ma dove fosse, e in che direzione, era difficile dirlo. La canzone sommessa, monotona e malinconica, simile a un pianto e appena percettibile, si sentiva ora a destra, ora a sinistra, ora dall’alto, ora da sotto terra, come se la steppa fosse stata percorsa da uno spirito invisibile che si era messo a cantare. Egóruška si era guardato intorno e non capiva da dove venisse quella strana canzone; poi, a forza di ascoltare, aveva cominciato a sembrargli che fosse l’erba, a cantare; nella sua canzone, semimorta, quasi andata, senza parole, lamentosa, sincera, cercava di convincere qualcuno che non era colpa sua, che il sole l’aveva bruciata senza una ragione; assicurava di avere un’appassionata voglia di vivere, che era ancora giovane e che sarebbe stata anche bella, se non ci fossero stati il caldo e la siccità; non aveva colpe ma chiedeva lo stesso perdono a qualcuno e giurava che provava un dolore insopportabile e che era triste e si compiangeva…
Egóruška aveva ascoltato ancora un po’ e gli era sembrato che per quella malinconica, monotona canzone, l’aria fosse diventata più calda, più soffocante e più ferma… Per far tacere la canzone, canticchiando e cercando di fare rumore coi piedi era corso fino al carice. Da lì aveva guardato da tutte le parti e l’aveva trovato, chi cantava. Vicino all’isba più lontana del piccolo villaggio c’era una donna con una sottana corta, con delle lunghe gambe sottili, come un airone, che setacciava qualcosa; dal setaccio scendeva lento dal poggio un pulviscolo bianco.

[Anton Čechov, la steppa, capitolo II]