Un uguale candore di spensieratezza

venerdì 18 Febbraio 2011

Credo che tutti quelli che, in tutto il mondo, hanno studiato russo abbiano sentito parlare di Nikolaj Dobroljubov, ma forse mi sbaglio. Ammettendo che non mi sbagli, se ne hanno sentito parlare credo che sia principalmente per un articolo che Dobroljubov scrisse nel 1859, subito dopo la pubblicazione del romanzo di Gončarov Oblomov, e l’articolo era intitolato Che cos’è l’oblomovismo.
Che non è un titolo bellissimo, secondo me, per un articolo.
Bellissimo invece mi sembra il titolo di un libretto di Turgenev del 1850 (da pochi giorni disponibile in un nuova traduzione di Alessandro Niero pubblicata da Voland), Diario di un uomo superfluo.
Diario di un uomo superfluo è un titolo che ha in sé qualche cosa che appena uno lo vede, gli vien voglia di riscriverla lui, una storia intitolata così, e forse non è solo per via del titolo.
Anche L’idiota, per esempio, è un bellissimo titolo, ma non è che uno che vede in libreria L’idiota pensa «Che bel titolo, mi vien proprio voglia di scriverla anch’io, una storia intitolata così».
No io credo che, obiettivamente, adesso L’idiota è un titolo veramente che colpisce, ma Diario di un uomo superfluo ha qualcosa che suona, alle nostre orecchie, più attuale, più vicino, più immediatamente comprensibile. E questo credo dipenda dal fatto che c’è, forse, una somiglianza, magari vaga, tra la situazione nella quale erano i giovani russi colti della prima metà dell’ottocento e quella in cui sono molti dei nostri conoscenti neolaureati all’inizio del ventunesimo secolo.
Provo a spiegarmi.
Nel suo articolo intitolato Che cos’è l’oblomovismo Nikolaj Dobroljubov sostiene che Oblomov, «un uomo sui trentadue-trentatré anni, di media statura, di piacevole aspetto, con degli occhi grigio-scuri e l’assenza di qualsivoglia idea precisa, di qualsivoglia capacità di concentrazione nei tratti del viso», così lo descrive Gončarov, un uomo il cui «pensiero vagava come un libero uccello sopra al suo viso, svolazzava sopra agli occhi, si posava sulle labbra semiaperte, si nascondeva nelle pieghe della fronte poi spariva del tutto, e allora tutto il suo viso luccicava di un uguale candore di spensieratezza», e «dal viso la spensieratezza si trasferiva agli atteggiamenti di tutto il corpo, perfino alle pieghe della vestaglia», secondo Dobroljubov, dicevo, come sa qualunque studente di letteratura russa in tutto il mondo per quanto è grande, il personaggio di Gončarov incarna perfettamente il tipo sociale dell’uomo superfluo, tipo sociale che, a parere di Dobroljubov, prospera, a metà dell’ottocento, in terra russa e ne popola la stupefacente letteratura.
«È già stato notato da tempo che tutti i protagonisti dei maggiori racconti e romanzi russi, – scrive Dobroljubov, – soffrono per il fatto che non vedono che scopo abbia la propria vita e non trovano, per sé, un’occupazione». Dobroljubov poi ci dice chi sono questi protganosti: l’Onegin dell’Evgenij Onegin di Puškin, il Pečorin dell’Eroe dei nostri tempi di Lermontov, il Rudin del Rudin e il Čulkaturin del Diario di un uomo superfluo di Turgenev, il Negrov del Di chi è la colpa di Herzen, il Tentetnikov della seconda parte delle Anime morte di Gogol’ eccetera eccetera.
«Tutta gente per bene, – direbbe Daniil Charms, – e non sanno farsi una posizione».
Come mai?
Adesso, io forse mi sbaglio, ma quella era una generazione, i russi colti della prima metà dell’ottocento, che era stata forse la prima generazione di russi ad avere contatti frequenti con l’occidente, avevano vinto Napoleone e i francesi, e si erano spinti fino a Parigi, e avevano letto gli illuministi, e avevano frequentato le lezioni dei filosofi tedeschi, e, le teste piene di libertà, uguaglianza, fratellanza e idealismo, la notte stellata sopra di loro, la forza morale dentro di loro, erano tornati in Russia, la loro patria, dove c’era ancora la servitù della gleba, e uno stato corrotto e arretrato e avevan scoperto che… non potevan far niente. Tutto il loro sapere, tutta la loro scienza non serviva a niente, perché c’era un apparato statale piramidale, con a capo lo zar, che decideva lui, cosa bisognava fare, loro dovevano solo servire, si diceva così, vale a dire ubbidire, e, se non volevan servire, ritirarsi in campagna e non dare troppo fastidio, mi scuso per la banalità del riassunto.
Allora, forse mi sbaglio, ma proviamo a immaginare un ragazzo, oggi, immaginiamo che sia di Carpi e si chiami Claudio, immaginiamo che sia appassionato di filosofia, che faccia una tesi sulla Città del sole, di Campanella, o, meglio, su Spinoza, sull’Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico di Spinoza, immaginiamo che impari il latino, e l’olandese, e immaginiamo che dopo due anni che ci lavora discuta la tesi, centodieci e lode, va bene, ma dopo? Proviamo a chiederci cosa interessa, alla società che questo Claudio, di Carpi, o di Mirandola, è lo stesso, che cosa interessa alla società che troverà il mattino dopo la sua laurea, quando esce di casa, oltre la soglia del suo appartamento, della Città del sole, di Campanella, o dell’Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico, di Spinoza, o delle Diatribe di Epitteto, faccio per dire. Niente. Che utilità ha, Claudio di Mirandola, per quella società, cosa può fare, in quella società? Ha davanti due possibilità: o si mette a servire, o si mette in un angolo e cerca di non rompere troppo i maroni, mi scuso per la volgarità del termine ma i tempi in qualcosa sono cambiati.
Allora, forse mi sbaglio, ma forse c’è qualche motivo per cui le giornate raccontate nel Diario di un uomo superfluo di Turgenev, che il giorno prima di morire scrive: «Domani è il primo aprile. Possibile che io muoia domani? Sarebbe quantomeno indecoroso», c’è forse qualche motivo, dicevo, se queste giornate ci sembrano, in qualche modo, familiari.

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