Un punto nei sondaggi
L’altro giorno ero in bicicletta, a me le cose vengono in mente quando sono in bicicletta, e pensavo ai punti nei sondaggi. «Ogni volta che quello lì parla, guadagno un punto nei sondaggi», avevo appena sentito dire per radio, e avevo pensato «Bravo».
Poi, quando ero uscito di casa per andare in libreria, mi ero immaginato uno che doveva fare una cosa, non so, risanare un debito, per dire, e che aveva convinto un po’ di gente che, se c’era uno capace, di risanare il debito, quello lì era lui, e aveva guadagnato la fiducia, non so, del quarantuno per cento, mettiamo. Poi, un anno dopo, il debito non era ancora risanato, aveva guadagnato la fiducia del cinquantuno per cento, avevo pensato intanto che passavo davanti allo stadio vuoto che a me dà l’idea dello sporco, non so come mai, Come ci sarà sporco, lì dentro, mi vien da pensare, tutte le cose che hanno buttato quando era pieno, un pensiero non tanto bello, non so come mai.
E poi, avevo pensato, l’anno dopo, il debito non era ancora risanato, lui aveva guadagnato la fiducia del sessantuno per cento, e poi, l’anno dopo, il debito non era ancora risanato, lui aveva guadagnato la fiducia del settantuno per cento, e poi dell’ottantuno per cento, e poi del novantuno per cento e dopo, alla fine, di tutti, cento punti nei sondaggi, cento punti su cento, non c’era nessuno che aveva dei dubbi. E poi?
La questione dei punti nei sondaggi, avevo pensato intanto che aspettavo al semaforo di porta S. Isaia, era risolta, la concorrenza sbaragliata, molti nemici molto onore, restava solo un’altra questione, piccola, marginale: era capace davvero, lui, di risanare il debito? Era calato, il debito? Ecco, avevo pensato, mettiamo che il debito non fosse calato. Cosa aveva ottenuto, con tutti quei punti nei sondaggi? Cosa se ne faceva? mi ero chiesto. E non ero stato capace di rispondermi. Ero arrivato in libreria senza neanche una risposta, solo una cosa vecchia, alla quale avevo pensato tanti anni prima, che il potere, a pensarci, dovrebbe essere quello che uno è capace di fare, non il posto che occupa nell’organigramma, quel che è capace di fare.
E in libreria, appena entrato, sulla destra, c’era un libro giallo che in copertina c’era un disegno di uno che passava davanti a una saracinesca chiusa, e l’avevo preso e avevo letto: «Davvero sappiamo vincere solo dopo la sconfitta, / le amicizie si fanno più profonde, / l’amore solleva attento il capo. / Perfino le cose diventano pure. / I rondoni danzano nell’aria, / a loro agio nell’abisso. / Tremano le foglie dei pioppi, / solo il vento è immoto. / Le sagome cupe dei nemici si stagliano / sullo sfondo chiaro della speranza. Cresce / il coraggio. Loro, diciamo, parlando di loro, noi, di noi, / tu, di me. Il tè amaro ha il sapore / di profezie bibliche. Purché / non ci sorprenda la vittoria», avevo letto, e era la poesia del poeta Adam Zagajewski, e era stata tradotta da Krystyna Jaworska, e dopo averla letta avevo pensato che Adam Zagajewski, che in quel momento era vivo, da qualche parte in Polonia, mi aveva toccato, a me, che giravo tra i libri a Bologna, e mi era venuta in mente quella poesia di Vivian Lamarque: «Siamo poeti, / vogliateci bene, / da vivi di più, / da morti di meno, / che tanto non lo sapremo».
[uscito ieri su Libero]