Un mondo di esperti
Metto qua sotto il discorso che ho fatto al Mambo l’altro giorno. È molto lungo, lo metto giù in tre parti, una al giorno. Si intitola Un mondo di esperti.
Un mondo di esperti
Discorso sull’arte moderna raccontata ai ciechi
pronunciato al museo d’arte moderna di Bologna
il 27 novembre 2008
nell’ambito di un rassegna intitolata
Collezioni mai viste
Buonasera.
Mi hanno chiesto di spiegare il posto in cui ci troviamo, il museo di arte moderna della città Bologna, ai ciechi, a chi non può vedere.
Che è una cosa, non so come dire, strana, e difficile, e interessante.
Cioè, in sostanza, secondo me, a parte il mueso di arte moderna della città Bologna, si tratta forse un po’ di rispondere alla domanda Cosa ci va a fare, un cieco, in un museo di arte moderna? Che è una domanda chiara, e sintetica, e che per rispondere io ci metterò circa cinquanta minuti. Spero che siate tutti comodi, tranquilli, e cominciamo.
Intanto mi presento.
Mi chiamo Paolo Nori, ho quarantacinque anni, e sono di Parma. Vivo a Bologna, però, e ne dimostro di più.
Sono alto uno e settanticinque circa e peserò, quando sono in forma, poco meno di ottanta chili. Non che sia grasso, ho una struttura fisica, diciamo così, spalle larghe, oppure si può anche dire le ossa pesanti, da piccolo mi dicevano sempre che avevo le ossa pesanti, ma allora ero grasso, ho il dubbio che me lo dicessero per via che ero grasso. Che il mondo, mi sembra, è così, va via un po’ di traverso. Se ti dicon che hai le ossa pesanti, non è che hai le ossa pesanti, è che sei grasso.
Comunque, adesso non è che sia magro ma non son neanche grasso. Sono alto uno e settantacinque e peserò poco più di ottanta chili. Segni particolari, cicatrici. In testa. Una volta, quest’estate, sono stato in una città, come dire, dei fiori, una città con una fontana a forma di quattro colombe che si davan dei baci. E della gente davanti vestita di bianco che ci faceva le foto.
Era una città che aveva un’atmosfera un po’ decadente, di quelle atmosfere che uno si immagina di trovarle magari, non so, a Baden-Baden, di quelle atmosfere, come si può dire, da giostre con i cavalli, di quelle atmosfere che andrebbero bene per finirci i capitoli dentro i romanzi, se si capisce.
Ero andato a fare una lettura, faccio molto spesso delle letture, e uno degli organizzatori, un signore di una certa età con una lunga cicatrice sulla fronte che me l’avrebbe reso simpatico e affine, se così si può dire, dal momento che io ne avevo una ancora più lunga, che per molto tempo avevo cercato di nascondere con dei cappelli in inverno e dei berretti in estate, ma della quale da qualche anno mi ero come dimenticato, sorprendendomi anzi quando qualcuno, parlandomi, faceva andare furtivamente lo sguardo sulla mia fronte per riportarlo poi subito, un po’ turbato, sugli occhi, questo signore con una cicatrice più corta, dopo la mia lettura mi avrebbe accompagnato alla macchina e mi avrebbe chiesto come mi sarei trovato a Bologna, e io gli avrei detto che mi sarei trovato benino, e lui mi avrebbe detto che avrebbe sentito parlare del fatto che, a Bologna, la vivibilità sarebbe diminuita, da qualche anno, e io gli avrei detto che così avrei creduto anch’io, e lui mi avrebbe chiesto se la colpa, secondo me, sarebbe stata degli extracomunitari.
E io gli avrei detto che la colpa, secondo me, sarebbe stata difficile, da trovare, ma che sarebbe stato altrettanto probabile che fosse stata degli extracomunitari quanto dei commercialisti.
Questa cosa adesso sembra apparentemente che non abbia nessun legame con il tema dell’odierno discorso e invece ce l’ha ma lo spiego poi dopo.
Intanto dico che a me, ultimamente, mi chiamano spesso per fare dei discorsi, pubblici, anche su materie delle quali io non so tanto, o so poco, come in questa occasione, che, come dicevo prima, dovrei tenere un discorso in risposta alla domanda Cosa ci può andare a fare, un cieco, in un Museo di Arte Moderna in generale e nel museo di arte moderna della città di Bologna in particolare?
Allora ci tenevo a chiarire subito che non sono un esperto di arte Moderna, né di arte Antica, del resto, a me viene anche da dire che non sono un esperto di niente, e questo non è che mi dispiaccia, anche per via che gli esperti, ultimamente, ne spuntan da tutte le parti, a me viene il dubbio che abbia ragione uno scrittore italiano contemporaneo quando dice che una volta c’erano i delinquenti, adesso ci sono gli esperti.
Ho fatto una lettura a Modena, l’altro giorno, c’era bisogno di qualcuno che mettesse su un divudì che ogni due tre minuti c’era da stoppare e poi far ripartire. Be’, quella lettura lì l’avevo già fatta altre due volte, e l’addetto al divudì, le altre due volte, era sempre stato uno che non ne sapeva niente, era la prima volta che faceva una cosa del genere, e allora stava attento, e la faceva bene, invece quella volta lì c’era un tecnico vero e proprio, un esperto, ma un esperto bravo, aveva capito le cose prima ancora che gliele spiegassi, difatti poi dopo è stato un disastro, non ne ha fatta una buona, per forza, era un esperto, un esperto è uno che sa già tutto, ha finito, chi ha avuto ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato ha dato, per quello io cerco di non essere esperto di niente, ma è difficilissimo.
Adesso per dire, non c’entra niente con l’arte contemporanea, o forse anche sì, io entro la fine dell’anno devo consegnare la traduzione di un’antologia di un poeta russo sul quale ho fatto la tesi e sul quale ho scritto anche un romanzo, Velimir Chlebnikov, che Dio lo abbia in gloria, ho cominciato già a lavorarci ma non sono contento perché non son preoccupato, e la mancanza della benché minima preoccupazione a guardarci dentro dipende dal fatto che io, ci ho fatto la tesi e ci ho scritto un romanzo, mi sento un esperto, di Chlebnikov, un po’. Allora bisogna che urgentemente su quella cosa lì cambiamo registro.
Non so se si capisce. Non so, per esempio, faccio un altro esempio.
Non so per esempio quest’estate, mese di giugno, ero in una città del meridione a fare una lettura, una di quelle col rimborso spese, e prima di leggere mi avevano portato in un camerino e mi avevano dato da firmare un foglio sul quale c’era scritto: compenso lordo: 500,00 euro; ritenuta d’acconto IRPEF (20%): 83,33 euro; netto percepito: 420,00 euro.
Io avevo alzato gli occhi dal foglio, avevo guardato la signora che me lo aveva dato e le avevo detto: Guardi che il 20 per cento di 500 non è 83,33, è 100,00. E poi 500 meno 83,33 non fa 420, fa qualcosa in meno.
La signora aveva preso in mano il foglio, lo aveva guardato e aveva detto Ma allora era come dicevo io. Ma allora avevo ragione. Ma allora era come dicevo io.
Poi era rimasta col foglio in mano e si era messa a fare dei gesti brevissimi, un po’ con le braccia, un po’ con la testa, come se partisse per fare qualcosa e si fermasse poi subito dopo.
Aveva un rossetto molto cupo, quasi viola, e un paio di stivaletti a punta, di cuoio giallo, e sulla punta una specie di ghirigoro.
Per un po’ si era sentito soltanto il rumore dei fogli che si muovevano per via di quei suoi scatti nervosi, poi si era decisa e aveva detto: Mi aspetti qui. E era uscita.
Il camerino era minuscolo, c’era appena il posto per una sedia, e non c’era neanche uno specchio. Però di fianco c’era un bagno. Ero andato in bagno.
Intanto che facevo la pipì, molte cose a me vengono in mente intanto che faccio la pipì, intanto che facevo la pipì mi era venuto in mente che il giorno dopo avrei dovuto fare sette ore di treno per andare a una riunione di tre ore e poi alla fine della riunione ci sarebbe stata la presentazione di un libro e mi ero chiesto il perché.
Ero tornato in camerino, mi ero seduto sulla sedia, avevo appoggiato la testa sopra una mano, mi ero detto che in fondo, poi, dopo, quello lì, era il mio mestiere.
E nessuno mi obbligava a farlo.
E c’erano sempre un mucchio di soluzioni alternative, a voler essere onesti.
Adesso tra poco finisce, l’esempio, è un esempio un po’ lungo, ma non lunghissimo, adesso è quasi finito.
La signora con gli stivaletti di cuoio era rientrata nel camerino bella dritta, perfino un po’ rigida, e pomposa, anche, un po’, e aveva detto Era come dicevo io. E io avevo pensato: Volevo ben dire. Poi mi aveva messo sotto gli occhi un foglio dove c’era scritto: compenso lordo: 500,00 euro; ritenuta d’acconto IRPEF (20%): 83,33 euro; netto percepito: 420,00 euro. Lo stesso foglio di prima. Io l’avevo guardata come per dire: Be’?
E lei mi aveva guardato, impettita, e pomposa, perfino, e aveva detto: L’ha detto il commercialista.
E niente. No questo veramente è un periodo che io mi son messo a fare una vita che probabilmente con l’arte contemporanea non c’entra niente, ma forse anche sì. Non so per esempio l’altro giorno stavo aspettando l’autobus per andare a Reggio Emilia a vedere un poeta moderno che si chiama Franco Loi che leggeva dentro un teatro. Intanto che aspettavo ho chiamato un mio amico per chiedergli se veniva anche lui. Il mio amico mi ha detto che non poteva venire che doveva andare a sentire un concerto di Sollima e poi mi ha detto che aveva visto che il giorno dopo sarei andato a Roma e visto che sarei andato a Roma lui mi consigliava di andare a vedere la mostra di Munari che c’era lì. Io l’ho ringraziato del consiglio ma gli ho detto che non potevo perché a Roma non sarei potuto arrivare prima delle 6 di sera, alle sette avrei avuto la lettura, alle sette del giorno dopo sarei andato in una radio a fare una trasmissione fino alle 9, alle 9 e 55 avrei avuto il treno che mi avrebbe riportato a Bologna dove avrei dovuto essere entro l’una che avrei avuto poi un altro impegno. È un periodo così, gli ho detto a quel mio amico, pensa che poco fa, gli ho detto, son tornato a casa di corsa, ho risposto alla posta elettronica, ho preparato la borsa, sono uscito, quando son stato sulla porta mi sono accorto che ero in anticipo di un’ora. Dovevo uscire alle 18 e 30, eran le 17 e 30. Allora son tornato a casa ho potuto lavorare quaranta minuti con calma, gli ho detto.
Insomma, un po’ è così.
Adesso io non son sicuro che c’entri, con l’arte moderna, però recentemente ho riletto le anime morte di Gogol’, e nelle Anime morte di Gogol’, secondo volume, c’è un personaggio che dice a un altro personaggio che lui non sta bene, al mondo, e l’altro personaggio gli dice Ah, non stai bene, sai cosa devi fare? Eh, gli dice il primo, cosa devo fare? Mettiti a lavorare sei anni senza tirare il fiato, poi vedrai che stai meglio. Che è una cosa che io questi ultimi mesi mi sembra che sto facendo così, ma non solo io, ho l’impressione.
L’altro giorno ho sentito per radio una pubblicità che c’era una signora che diceva Ahmed, ripeti con me: Mi sun chi per laurà. E c’era questo Ahmed che diceva Mi sun chi per Laura. No, diceva la signora, non per Laura, per laurà. E Ahmed diceva Per laurà. Bravo Ahmed, diceva la signora, vedi che è facile? E poi si sentiva una musichetta e poi la voce di uno speaker che diceva che era una campagna di un qualche ministero per non mi ricordo che scopi.
E a me, non so, mi è venuto in mente che nei romanzi stanieri del sette e dell’ottocento, una delle espressioni italiane che ho trovato più spesso, scritta in corsivo e con una nota che diceva In italiano nel testo, era: il dolce far niente.
Allora, non so come dire, ma io ho l’impressione che a noi, i casi son due, o ci prendono per degli altri, oppure ci stan cambiando proprio i connotati.
E noi, bisogna dire, li lasciamo fare. Che lasciarli fare, non sarebbe neanche grave, la cosa che sarebbe forse un po’ grave sarebbe poi un’altra, che ci credessimo. Che ci lasciassimo guidare dagli esperti dei ministeri che ci convincessimo di essere non so che cosa, una cosa nuova una specie di ibrido creato dagli esperti di qualche ministero insieme agli esperti di qualche agenzia pubblicitaria che ci dicessero come siamo davvero e noi ci comportassimo come se fosse un dovere essere fatti a immagine e somiglianza di quell’ibrido lì.
Mi viene in mente un po’ di tempo fa, in Abruzzo credo, c’era un consigliere regionale che ha promosso una campagna regionale che aveva questo slogan: Il lavoro rende liberi. Il depliant che pubblicizzava questa campagna aveva una nota del consigliere che diceva Non è una frase mia, non mi ricordo dove l’ho sentita, l’ho sentita da qualche parte e mi è piaciuta moltissimo e credo che sia proprio d’attualità.
Dopo quando gli han fatto notare che era la frase che era scritta sui cancelli di Auschwitz, lui ha detto Ah, ecco, dove l’avevo sentita. E comunque si è rifiutato di chiedere scusa perché secondo lui, quella frase lì, al di là del fatto di Auschwitz, secondo lui era proprio una bella frase.
Abbassate la testa e mettetevi a lavorare senza tirare il fiato fin quando scampate, dopo vedrete che state meglio, ci dicon gli esperti, e noi siam portati crederci meccanicamente, e abbassiamo la testa e ci mettiamo a lavorare senza tirare il fiato non ci pensiamo, a cosa sono gli esperti.
Perché gli esperti, io, per esempio, quando facevo l’università che facevo la tesi su Chlebnikov e mi consideravo un esperto di Chlebnikov, io se sentivo qualcun altro che parlava di Chlebnikov, non lo stavo mica a sentire. Cercavo di interromperlo subito, e se continuava mi veniva proprio l’istinto fisico di andare via e intanto pensavo Come si permette, questo, di parlare di Chlebnikov, che l’esperto di Chlebnikov sono io? Cioè a me, dopo che avevo studiato le cose di Chlebnikov per qualche mese, mi eran cresciuti come dei paraurti retrattili davanti e didietro che saltavano fuori ogni volta che veniva fuori l’argomento Chlebnikov e che mi impedivano di avvicinarmi e di imparare di più, ero talmente convinto di saperne, su Chlebnikov, che su questo argomento ero diventato cieco, e sordo, non muto, che ne parlavo continuamente anche a della gente, che, poverettti, la poesia d’avanguardia dei primi anni del novecento nella russia presovietica e sovietica non era stranamente un argomento che li appassionava.
Perché gli esperti son quello, son ciechi e son sordi, non hanno bisogno, loro, né di guardare né di sentire, pensate a un esperto dattilografo, che riesce a scrivere senza guardar la tastiera, non fa neanche un errore, bravissimo, e va benissimo, in quel caso, perché la tastiera poi in fondo è sempre la stessa, ma se alla tastiera si sostituisce il mondo, adesso non so, ma la cosa mi sembra diventi un po’ più complicata.
Cosa c’entri tutto questo con il Museo d’Arte Moderna della città di Bologna, ammesso che c’entri qualcosa, credo che si capisca alla fine, portate un po’ di pazienza che è un discorso un po’ articolato. Intanto cominciamo a avvicinarci da un punto di vista geografico facciamo un esempio, parliamo del sindaco di questa città, Cofferati.
Ecco io, Cofferati, personalmente non lo conosco e non sono abiutato, a dar dei giudizi sulle persone che non conosco e la cosa che dirò non riguarda Cofferati in quanto Cofferati, riguarda Cofferati in quanto sindaco, che quella lì è una figura, il sindaco, in senso, come dire, così, ideale, che dovrebbe essere un po’, secondo me, per i suoi concittadini, per i bolognesi, nel caso di Cofferati, quello che per i puffi è il grande puffo: Cofferati ci assomiglia, anche, un po’, al grande puffo, con la barba bianca: devo dire a scanso di equivoci che per me il grande puffo è un personaggio molto positivo, e che io l’ho citato perché mi sembra di essere, anche lì, un esperto, dei puffi, dal momento che ho una bambina di quattro anni che negli ultimi due anni la nostra lettura preferita, quando siamo insieme, sono le avventure dei puffi, e io devo avergliene lette e rilette circa centocinquanta, di avventure dei puffi, e allora per quello ce le ho nella testa ma forse non era un esempio molto calzante lasciamo pur perdere il grande puffo parliam di Cofferati che a me sembra che nel suo caso la cosa si capisce lo stesso anche senza far degli esempi. Allora, premesso che queste son delle cose che poi uno, come sono davvero, non lo sa mai, che chissà quella gente lì come fa, a prendere le decisioni, chissà quali sono i dati che hanno a disposizione e chissà quali cose tengono in considerazione, però a me sembra che il sindaco di Bologna, Cofferati, ha fatto il sindacalista per tanti anni, è stato abituato per tanti anni a avere una controparte, e a essere rigido, duro, con la controparte, a non mollare, a tenere il punto, a attaccarsi alla lettera delle normative per ottenere qualcosa che poi, quando l’hanno chiamato a fare il sindaco di Bologna, era così abituato che si è messo a trattare Bologna come una controparte.
Che a me è venuto da pensare che è come uno che fa il gommista che lo mandano a fare il pizzaiolo e lui si mette lì, dietro il bancone del suo locale, con la sua aria compressa, e prova a soffiarla sulla farina e spera che salti fuori una pizza. E quando si accorge che non salta fuori si arrabbia, anche. Ma pensa te, gli vien da pensare, a gonfiare le gomme andava così bene, qui non funziona. Ci dev’essere un problema nella farina, gli vien da pensare, e ordina dell’altra farina perché lui, da gommista, non solo è convinto, ma lo sa, che la sua è una ricetta che funziona, lui lo sa, come si fa a far andar bene le cose, con l’aria compressa. È grazie all’aria compressa, che ha ottenuto questo importante posto da pizzaiolo, e allora vuoi che adesso che è pizzaiolo lui rinneghi tutto quello che ha fatto prima e scelga degli altri strumenti? Sarebbe un ingrato, e poco coerente.
Che poi uno potrebbe pensare che quella cosa lì, in politica, la legalità, stabilir delle regole e farle rispettare alla lettera, concepire il governo di una città come sorveglianza rigida sul fatto che le regole siano applicate, che è un po’ l’equivalente del mi son chi per laurà, uno potrebbe pensare che funzioni, in politica, chiedere ai propri concittadini che abbassino tutti la testa e lavorino per sei anni senza tirare il fiato che poi vedranno che stanno meglio, e a quelli che, anacronistici, hanno ancora in testa il dolce far niente fargli passare la voglia a forza di multe, vi sedete per terra? multa, bevete una birra dopo le dieci di sera? multa, non trovate un posto dove pisciare pisciate per strada? multa, la vostra morosa vi ha lasciato vi siete ubriacati avete pisciato per strada e poi avete scritto sul muro la vostra disperazione, 3 multe, be’ queste cose qua, adesso, io penso di no, ma lì è una questione, è difficile, son punti di vista, magari c’è qualcuno che crede che l’applicazione della formula Abbassare la testa per sei anni senza tirare il fiato in campo politico possa anche funzionare, io penso di no, ma ammettiamo che in campo politico possa funzionare, nel campo dell’arte, io, proprio, se devo dire, lo escluderei, che funzioni.
Che poi, secondo me, anche in campo politico, adesso io mi sbaglierò, ma secondo me, a quelli del dolce far niente, per così dire, anche di fronte a un attacco di multe, gli restano sempre delle armi, anche piccole ma, come dire, acuminate, per combattere la propria battaglia a favore del dolce far niente, per così dire, come per esempio quelle delle quali si è servito il protagonista di una poesia del poeta romagnolo Raffaello Baldini che si intitola Guerra che fa così:
Guerra
No, la burocrazia non c’entra niente, sono loro, ce l’hanno con me, sono nel libro nero, e so perché, è stato l’altr’anno, d’estate, da Fasùl, seduti fuori, parlavamo, che vogliono buttar giù le scuole, vogliono farle laggiù ai Mulini, sta’ buono, va’ là, sono cose che, e io lì m’è scappato detto, come ho detto? Di sopra ci vorrebbe una scopa e fare pulizia, ecco, una cosa così, e loro, figurarsi, l’hanno saputo il giorno dopo, hanno tante di quelle spie, e da allora sono segnato, non me ne passano una leggi, regolamenti, da diventare matto, che sono più di due anni ormai, ma loro, hai voglia, possono passare mille anni, non perdonano, questa, io, è una cambiale che gli ho firmato, e la devo pagare, però non mi conoscono loro a me, tutta la loro prepotenza, io ci piscio sopra, non dico per dire, piscio, davvero, la sera, quando non mi vedono, ma anche il pomeriggio, basta stare attenti, d’inverno, con quei freddi, certo, si fa meglio, la gente esce poco, d’estate invece stanno in giro fino a tardi, però d’estate c’è più soddisfazione, d’agosto, sotto il Voltone, che da lì passa l’assessore al Demanio, te lo do io il Demanio, perché la tengo da scoppiare e quando mi libero sono delle pisciate da cavallo, una puzza che non si resiste, te l’immagini, lì sotto, d’agosto, poi se è libeccio, è che non mi fermo, ho imparato da loro, non perdòno, e non vado a caso, è un tirassegno, perché ce n’è che pisciano in giro, ma pisciano e basta, negli angoli, nel muro di dietro del Ricovero, contro la pompa del distributore della Shell che è chiuso da anni, insomma dove s’è sempre pisciato, invece io, è tutt’un’altra cosa, è una guerra, piscio sotto l’arco, piscio dall’alto giù per le scale del Comune, che va che corre, piscio contro la porta a vetri della Pro Loco, nelle colonne del Credito, piscio sul palco della banda, ci sono delle notti, mi sveglio che mi scappa, ma non vado mica al cesso, mi alzo, arrivo in piazza, mi metto in piedi sulla fontana e ci piscio dentro, e la mattina dopo passo di lì, come niente, guardo, che bel getto, e rido, pisciate voi così.
[continua]