Un mondo di esperti (3)

martedì 2 Dicembre 2008

La fine del discorso del mambo:

[segue]

Adesso comunque cominciamo a parlare dell’arte moderna e di questo museo, cioè, a dir la verità cominciamo a parlare di musica perché la prima volta che ci sono entrato, in questo museo, c’era una mostra del musicista John Cage e su un tabellone di questa mostra c’era scritto La musica è edificante, perché ogni tanto mette in moto l’anima. Che è una parola, anima, di fronte alla quale io di solito batto in ritirata ancora di più che di fronte alla parola arte, solo che in quella frase lì, La musica è edificante, perché ogni tanto mette in moto l’anima, c’è quell’ogni tanto che è come se la bilanciasse, gli dà una sua grazia che è come se ti dicesse, non avere paura, non battere, in ritirata, stai qua, ragioniamo.
E poi c’erano altre due cose che nella mia comprensione di quella frase lì era come attenuassero la paura che fa una parola così impegnativa come anima, uno era John Cage, che è un musicista moderno che io ho conosciuto qualche anno fa per via che un mio amico che era diplomato in composizione al conservatorio mi ha fatto ascoltare un suo pezzo famoso, cioè famoso negli ambienti di quelli che si occupano di musica moderna e di arte moderna ma che io prima di allora non avevo mai sentito e che in un certo senso non ho mai sentito neanche adesso perché quel pezzo lì, che si chiama 4’ e 33”, è un pezzo che nella sua sostanza sono 4 minuti e 33 secondi di silenzio, ho scoperto recentemente che ce n’è anche una esecuzione per orchestra che l’han messa su youtube, è stata registrata al Barbican Center di Londra con tanto di direttore d’orchestra sul podio con la bacchetta in mano, Lawrence Foster, e tanto di BBC Symphony Orchestra al completo, settanta elementi, e son tutti lì che per 4 minuti e 33 secondi guardano lo spartito in silenzio, col teatro pieno, e questa esecuzione di 4 e 33 l’ho trovata intanto che ero al telefono con Uliana Zanetti, del Mambo, che è tra quelli che hanno organizzato in un certo senso questa serata, questa di stasera, questo discorso qua che state sentendo, e lei al telefono, dopo che son scoppiato a ridere, intanto che le spiegavo perché ridevo, e ridevo perché su youtube stava andando una panoramica del pubblico che intanto che l’orchestra eseguiva 4 e 33 di John Cage era piuttosto imbarazzato, lei Uliana mi ha detto Ah, 4 e 33. Poi ha fatto una pausa poi ha detto Maaa… pensi di farcelo sentire giovedì sera, quel pezzo lì? E io, devo dire che quando Uliana mi ha chiesto così per un attimo ci ho pensato, poi però mi son ricordato che quel pezzo lì, io avevo un gruppo, una volta, che nessuno di noi era capace, di suonare, però suonavamo lo stesso, in giro in Emilia, ma anche fuori regione, ogni tanto, siamo stati anche al teatro Argentina, presentati da Albertazzi, e, adesso io non voglio dire che eravam bravi, non sapevamo neanche suonare, però posso dire che delle volte, non sempre, ma spesso, se vogliamo, avevamo un certo successo, e certe volte ci chiedevano anche il bis, e noi lo facevamo, e poi quando avevam fatto quel bis delle volte ci chiedevano un altro bis, che tecnicamente dovrebbero esser un ter, credo, ma loro lo chiamavan comunque bis, e noi lo facevamo, e poi quando l’avevam fatto ci chiedevano un altro bis, che poi era il quater, se non mi sbaglio, e noi lo facevamo, e poi delle volte dopo il quater ci chiedevano ancora un altro bis e noi, è successo raramente, ma quando la cosa diventava proprio un po’ ingestibile, e incomprensibile, che proprio non eravam capaci, di suonare, era proprio stupefacente che ci chiedessero così tanti bis, be’, noi, in quesi casi lì, facevamo 4 e 33 di John Cage, dopo di che, esguito quello, mai nessuno ci ha chiesto più un bis, dopo 4 e 33 di John Cage che per me è comunque un pezzo memorabile, e ha suonato stranissimamente nella mia testa quando in questo museo ho letto quella frase lì di John Cage, La musica è edificante, perché ogni tanto mette in moto l’anima, che è stranissimo che uno che scrive una cosa così poi scriva 4 e 33 di John Cage che è un pezzo che in un certo senso fa battere in ritirata ancora di più della parola anima. E lui John Cage strano era strano, sapeva tutto dei funghi, adesso io non sono un esperto, di John Cage, ma tutti quelli che, anche minimamente, come me, sanno chi è John Cage, sanno anche che sapeva tutto dei funghi, e che era andato anche in televisione, a Lascia o Raddoppia, come esperto di funghi, e alla mostra che c’era qui al Mambo c’era un tabellone con su scritto anche l’anno in cui c’era andato, 1959 e il numero di puntate, 5 puntate, e la somma che ha vinto, 5 milioni, e il fatto che in quell’occasione aveva eseguito in televisione alcune sue composizioni, e c’era anche scritto un dialogo che c’era stato tra lui e Mike Bongiorno che era il seguente:

Mike Bongiorno.: “Bravissimo, bravo bravo bravo bravo. Bravo bravissimo, bravo Cage. Beh, il signor Cage ci ha dimostrato indubbiamente che se ne intendeva di funghi… quindi non è stato solo un personaggio che è venuto su questo palcoscenico per fare delle esibizioni strambe di musica strambissima, quindi è veramente un personaggio preparato. Lo sapevo perché mi ricordo che ci aveva detto che abitava nei boschetti nelle vicinanze di New York e che tutti i giorni andava a fare passeggiate e raccogliere funghi”.
John Cage: “Un ringraziamento a… funghi, e alla Rai e a tutti genti d’Italia”.
Mike Bongiorno: “A tutta la gente d’Italia (applausi). Bravo signor Cage arrivederci e buon viaggio, torna in America o resta qui?”.
John Cage: “…Mia musica resta”.
Mike Bongiorno: “Ah, lei va via e la sua musica resta qui, ma era meglio il contrario: che la sua musica andasse via e lei restasse qui” (risate e applausi).

Che l’arte contemporanea, è facile, prenderla in giro, non so se ci avete fatto caso, ma prender per il culo un artista contemporaneo è una delle cose più facili e più diffuse che esista, e è successo abbastanza spesso anche a me, ma neanche tanto tempo fa, dieci o dodici anni fa, che era il periodo che credevo di essere un esperto di avanguardie russe nella loro versione scritta e che certe cose delle avanguardie russe nella loro versione figurativa, come per esempio il quadrato nero di Malevic, c’è questo quadro famoso con un quadrato nero su fondo bianco che non c’è nient’altro, che Malevic quando l’ha esposto, in Russia, nel primo decennio del novecento, se non ricordo male, l’aveva messo in un angolo come se fosse stata un’icona, che poi aveva fatto anche diverse copie, qualcuna l’aveva fatta fare anche ai suoi allievi, che io quando ho visto una di queste copie originali, che il museo dell’Ermitage aveva appena comprato spendendo una cifra spropositata, io mi ricordo il nero, quel poco di nero che c’era in mezzo a tutto quel bianco era anche tutto crepato, e sotto le crepe si vedeva il bianco della tela e io avevo pensato Non son neanche capaci di pitturare e m’era montato un nervoso, e dopo tutte le volte che vedevo una riproduzione del quadrato nero di Malevic, o che ne sentivo parlare, o che ne leggevo nei saggi, spessissimo, perché è un quadro famosissimo, mi veniva un nervoso, la vita degli esperti, veramente, è una vita infame, io anche quando leggevo, non so, per esempio, quel periodo lì, io mi ricordo avevo cominciato a leggere il Tractatus, di Wittgenstein, che è un saggio filosofico-logico-mateamatico, se così si può dire, che è costruito in un modo che ci sono sette proposizioni che le prime sei, che son complicate, ma molto, bisogna stare attenti, sforzarsi, far fatica, per capirle, e queste sei proposizioni tendono tutte a dimostrare la settima, che invece è semplicissima, e dice: quello che non può essere detto, dev’essere taciuto. Che io, in quel periodo lì che ero un esperto e che avevo tra le mani il Tractatus, mi ricordo che avevo pensato a mio nonno, che faceva il muratore, e mi ricordo che mi ero immaginato che mio nonno mi vedesse con quel libro lì di Wittgenstein in mano e mi chiedesse Cosa stai leggendo, e io allora gli avrei dovuto rispondere che stavo leggendo un saggio, e lui mi avrebbe chiesto E cosa dice? E io gli avrei dovuto rispondere che diceva che quel che non può essere detto, dev’essere taciuto, e mio nonno, nella mia immaginazione, avrebbe scosso la testa avrebbe detto Non c’è mica bisogno di leggerlo nei saggi, che quel che non può essere detto dev’essere taciuto. Invece secondo me mio nonno, che anche se è morto quando avevo nove anni, e anche se aveva imparato a leggere e scrivere da autodidatta, e anche se faceva il muratore, secondo me è la persona che se non c’era lui io secondo me non mi sarei mai messo a scrivere dei libri, e forse neanche a leggerli, perché mi ricordo e mi ricorderò sempre che quand’ero piccolo, quando pioveva, che i muratori allora quando pioveva non lavoravano, c’era mio nonno in sala, in poltrona, che leggeva romanzi, per delle ore, e quei romanzi lì che leggeva lui sono gli stessi romanzi che ho cominciato a leggere io, la stessa carta che aveva toccato lui, con le sue mani, da muratore, secondo me mio nonno, che conosceva la meravigliosa utilità del filo a piombo, non avrebbe detto così, chissà cos’avrebbe detto, non questo, perché lui non era un esperto, era un atuodidatta, e io, da parte mia, dopo che ho smesso di essere esperto di qualcosa, mi è successo una marea di volte di pensarci, dopo aver sentito dire delle cose, delle volte dopo averle sentite da dire me, in questi ultimi quindici anni di inesperienza, se così di può dire, io me la son detta nella mia testa una marea di volte, quella frase lì Quello che non può essere detto dev’essere taciuto, e alla fine mi sembra che se incontrassi il me stesso di quando ero un esperto e lo sentissi criticare il quadrato nero di Malevic con gli argomenti con cui lo criticavo io allora, penserei Ecco, è arrivato un altro che ha capito tutto.
Che questa cosa, tra l’altro, dell’aumento esponenziale, in questi ultimi anni, della gente che han capito tutto, era stata prevista da un signore che io per tanti anni lo volevo neanche sentir nominare, solo che secondo me lì facevo bene. Che io ultimamente, per questo discorso, ho ripreso in mano un libretto che si intitola L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, e l’ho letto, devo dire, con piacere, e qualche mese fa, quest’estate, alla festa dell’unità di Bologna io avevo comprato un libretto che si intitola Introduzione alla psicoanalisi e l’ho letto anche quello lì con piacere. Poi l’altroieri, stavo tornando a casa, di notte, in bicicletta, ero sulla via Emilia, c’era un freddo, e a un certo punto, all’altezza di via Battindarno ho pensato, Ma pensa te, ci son questi due, Benjamin e Freud, che io quando facevo l’università non li volevo vedere neanche pitturati, adesso li leggo con gusto. Come mai? mi sono chiesto, e mi sono risposto che era per via che loro, adesso, sono del secolo scorso.
Che io, non so come dire, quando facevo l’università, alla fine degli anni ottanta del secolo scorso, intorno a me c’era pieno di gente che mi diceva che Benjamin era Fondamentale per capire il nostro tempo, che senza di lui non si poteva fare, e io, una reazione istintiva, ma così, senza pensarci, era stata di dire Ah sì, è fondamentale? Allora io non lo leggo. Io faccio a meno di Benjamin, avevo pensato, vediamo se non poi mi trovo male. Io la mia testa la dichiaro ufficialmente una testa debenjaminizzata, dopo vediamo, se sto meglio io o se state meglio voi che avete accesso a queste conoscenze fondamentali. Ma mica solo con Benjamin, mi era successo così con un po’ di gente, quell’altro là che aveva inventato l’ermeneutica, quello che tutti dicevano che aveva scritto delle opere fondamentali nel campo dell’interpretazione che senza aver letto quelle non si era in grado di interpretare neanche la tazza del vater, come si chiama, Gadamer? Mai letto una riga di Gadamer neanche per sbaglio. Ma mica solo Gadamer, anche quell’altro, quel filosofo che tutti dicevano che era il filosofo fondamentale del novecento, quello tedesco, come si chiama, coso lì, Heidegger. Io Heidgger, non faccio per vantarmi, non so neanche i suoi libri come si intitolano.
Era proprio una cosa che vista da fuori mi rendo conto che potrebbe sembrare una reazione un po’ da ignorante, non discuto, e delle volte io questa mia intransigenza, questa mia ascesi, in un certo senso, l’ho anche pagata con dei sacrifici che Freud, io, a dire il vero, qualcosa avevo letto anche prima, Psicopatologia della vita quotidiana, e mi era piaciuto, mi era piaciuto tanto che mi ero iscritto a un corso di psicologia dove c’era il monografico su Freud solo che poi, la prima lezione, la professoressa, che mi piaceva anche abbastanza, aveva una gonna appena sopra al ginocchio, un po’ demodé, aveva detto che Freud era un genio e che le sue opere fondamentali avevano gettato una luce nel buio della mente umana e che senza di loro la comprensione del mondo sarebbe stata difettosa e incompleta che io quando ho sentito così mi ricordo ho pensato Vacca miseria, non posso leggere neanche lui.
Che, lo ripeto, visto da fuori potrebbe sembrare un’atteggiamento da ignorante una specie di partito presto invece a pensarci bene secondo me una ragione ce l’ha.
Che io una volta un mio amico parlando di letteratura lui mi diceva che gli autori che piacevano a me erano tutti dei marginali, e io ho pensato Per forza.
Che gli autori che in un dato momento tutti dicono che sono fondamentali, gli autori che tu li trovi citati su tutti libri in tutti in tutti i giornali in tutte le conversazioni, gli autori alla moda, gli autori ai quali si abbeverano tutti, se così si può dire, in quel momento lì che sono alla moda che tutti ci si abbeverano, se uno ci va accanto li trova indeboliti, smunti, sbranati, fatti a pezzi, debilitati, ridotti in pillole e ammalati, anche, febbricitanti, anemici, respirano male, mangiano troppo, fan poco moto, c’è pieno di gente che li porta in giro, in palmo di mano, e allora poi loro diventano pigri, han poco fiato, fanno fatica a fare le scale, e parlano male, riescono a dire ormai solo quelle due o tre cose che ripetono così, a pappagallo, sembran dei deficienti ma magari non sono dei deficienti, magari è solo un momento difficile, bisogna avere pazienza, aspettare una ventina d’anni e poi andargli accanto e allora lì sì, che uno si rende conto di cosa hanno da dire, che ormai gli è passata la sbornia, gli son passati anche i postumi, sono lì sobri che ti dicon le cose direttamente senza in mezzo tanta ermeneutica. Ma torniamo a John Cage
Allora John Cage, quella cosa là che diceva, che la musica, delle volte, mette in moto l’anima, io adesso non lo so, l’anima, però non so se a voi è mai capitato di cantare in un coro, a me è capitato, per un po’, e la cosa stranissima, di cantare in un coro, è che quando tu hai finito, ti è successo qualcosa che dirlo, non si può mica dire, quello che non può essere detto dev’essere taciuto. Non c’è niente da fare. Se vi è successo lo sapete, se non vi è successo non si può dire, si può solo alludere, a una cosa del genere, e io un paraone che posso traovre è quando andavo in palestra a fare ginnastica preboxistica, che venivo fuori che sificmente stavo d’un bene, coem se avessi il riscaldamento autonomo, ecco, cantare in un coro è la stessa cosa ma spirituale, il riscldamento autonomo spiriturale che però, quella parola lì, spiriturale, come si fa a dirla, non si pu mica.
Niente, non si può dire, quello che non può essere detto, non si puà dire, allora apsetta, prendiamola da un altro lato, in quel libretto là che ho riletto, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Benjiamin lui diceva, adesso io banalizzo, che la caratteristica dell’arte nel novecento, è che è diventata riproducibile, e che con la riproducibilità è diminuita la distanza tra opera d’arte e spettatore, di conseguenza all’opera d’arte è scomparsa l’aura, che è come un’aureola, un che di sacro. E’ come se l’arte avesse fatto un movimento per scendere al nostro livello, ali livello delle masse, che poi siamo noi.
E, inversamente, scrive Benjamin, La tecnica del film, che è l’esempio se vogliamo principale di questa arte tecnicamente riproducibile, la tecnica del film, secondo Benjamin, esattamente come la tecnica sportiva, implicano che chiunque assiste alle prestazioni che esser rappresentano assume le vesti di un semispecialista. Basta aver sentito anche soltanto una volta un gruppo di giovani strilloni di giornali discutere, appoggiati alle loro biciclette, i risultati di una competizione ciclisitca, per giungere alla comprensione di questo stato di fatto. Una specie di invasione degli esperti, prevista da Benjamin e effettivamente realizzatasi, non solo riguardo al cinema e al ciclismo, riguardo un po’ a tutto, e me ne sono accorto anch’io.
Che qualche tempo fa, quando è morto l’ultimo papa, io abitavo in centro a Bologna, in via del Fico, e quel periodo lì quando è morto il papa era un periodo che io non guardavo la televisione, non leggevo i giornali e per un po’ avevo anche smesso di sentire la radio.
E questa cosa aveva prodotto degli effetti singolari, per esempio il fatto che di questa morte del papa, e del successivo convegno di cardinali per eleggerne un altro, io l’avevo saputo per via che nel bar dove andavo a far colazione, sotto casa mia, in via Marsala, eran diventati tutti dei vaticanisti.
Un bar che fino a pochi giorni prima era frequentato da bancari, studenti, pensionati, commercialisti, idraulici, sarti, professori di ginnastica, tabaccai, ortopedici, musicisti, impiegati comunali, bidelli, avvocati, fisioterapisti, garagisti e bibliotecari, tutto d’un tratto, dans l’espace d’un matin, come si dice, era diventato il bar dei vaticanisti. E discutevano fra loro, e si dividevano in fazioni, e c’erano i bene informati e i male informati, e c’era chi assicurava che il giorno successivo tutto sarebbe finito, e chi diceva che no, che per altri tre giorni niente fumata bianca, e era in tutto e per tutto quello che un mio amico chiama la recita del pensare. Era come se tutto fosse diventato una finta di scuola dove hai continuamente dei professori che fanno finta di darti il voto e tu devi far finta di saperne altrimenti fanno finta di bocciarti.
Però poi succede, delle volte, ci son dei momenti che il mondo, davvero, ti prende di sorpresa. Che non so, un po’ di tempo fa, una notte, io e una mia amica dovevano tornare in macchina da Piacenza e per non dormire, sull’autostrada, c’eravamo messi a cantare. Uno non ci pensa, ma si può cantare forte, in una macchina, sull’autostrada tra Piacenza e Bologna, di notte, non si dà fastidio a nessuno. E delle volte si cantano di quelle canzoni che l’aria, dentro la macchina, la musica, anche solo la voce, delle volte, ha come delle proprietà che l’aria, dentro la macchina, diventa più aria, non so se mi spiego, come se avesse più senso, non so se mi spiego.
Che è una cosa che succede anche quando uno entra in una stanza e sente che c’è appena stata una discussione, che, anche se adesso è finita, e noi non ne abbiamo sentito neanche una sillaba, si sente qualcosa, qualcosa di invisibile, l’elettricità nell’aria, come si dice, che ci dice che lì, in quella stanza, prima che noi entrassimo, è successo qualcosa.
Che io mi ricordo, quando facevo l’università, io, non mi ricordo il motivo, a un certo punto mi ero convinto che la musica cambiasse lo spazio in cui veniva diffusa, e avevo detto al mio professore che mi sarebbe piaciuto fare delle fotografie di una stanza senza musica, e poi di quella stessa con della musica, a manetta, come si dice, magari del liscio, Battlagiero, per esempio, e il mio professore mi ricordo mi aveva detto Lotman dice la stessa cosa, e io gli avevo detto Ah. Io Lotman, dicevan tutti che era fondamentale, non lo leggevo, allora la cosa poi era finita lì.
Adesso magari leggo anche Lotman.
Perché questo è un periodo, davvero, se ci pensate, bellissimo, per studiare, per girare, per darsi da fare, si può legger di tutto e guardare di tutto perché non c’è quasi più niente di fondamentale, o meglio, qualcosa ancora c’è, mi han detto che è appena uscito un che dice della cultura itlaiana contemporanea le cose fondamentali sono Fiorello, Striscia la notizia, Pasolini, Cattelan e Paolini, che lì, va be’, Cattelan e Paolini un po’ mi dispiace, non si ci può avvicinare, in questo momento, bisogna aspettare una ventina d’anni, ma il resto, non so, Marx, oggi uno può leggere Marx tranquillamente, con piacere, seduto in poltrona, anche in bagno se vuole, e nessuno ti dice niente, e nell’arte, noi oggi possiamo vedere Picasso, e Manzoni, quello della celeberrima merda d’artista, con un distacco che ci fa capire l’immenso lavoro che c’era dietro quelle opere lì, ma un sacco di roba, Rot’ko, io qualche mese fa sono stato a Roma a vedere una mostra che c’era di Rot’ko, che le opere di Rot’ko, quelle dell’ultimo periodo, degli anni sessanta, se non ricordo male, sono delle enormi tele a due colori, sembrano un po’ i finestrini di un treno, che uno a pensarci dice Va be’, son buono anch’io di far quella roba lì, io vent’anni fa credo che avrei detto così, e mi avrebbe fatto venire il nervoso, Rot’ko, invece adesso, qualche mese fa, io sono andato a quella mostra di Rot’ko che c’era lì a Roma, mi son messo davanti a uno di quei quadri lì di Rot’ko, e mi veniva da piangere. Io non riuscivo a tratterener la commozione, veniva fuori una cosa, da quel finestrino di un treno, che era come il finestrino sporco di un treno, veniva fuori una cosa, che era un mistero, e che è una cosa inspiegabile che secondo me non dipende neanche da quello che c’è dipinto, no davvero, è un mistero, a uno gli vien da pensare che c’entra Rot’ko, proprio, lui, come persona, con la sua storia, la sua vita, tutta la fatica che ha fatto che è come se lui l’avesse come trasfusa in qualche modo inspiegabile dentro quei quadri lì che loro poi eternamente la ributtano fuori in un modo invisibile, ci sono come dei flussi della fatica che ha fatto Rot’ko che escono da quel quadro che lì, davvero, come quando entri in una stanza che l’aria è carica d’elettricità, lì non c’entra vedere, lì è come quello che Benjamin chiamava aura, che si vede che non è sparita del tutto, sparisce per vent’anni e poi ricompare e allora a me mi viene da dire che un cieco, in un museo d’arte moderna come questo, se gli chiedono Ma cosa sei venuto a fare, qui? lui potrebbe rispondere Io sono qui per l’aura. Per laurà? No, per l’aura.