Un mondo di esperti (2)

lunedì 1 Dicembre 2008

Seconda parte del discorso del Mambo:

[segue]

Ecco. Allora dicevamo, lasciamo star la politica, parliamo dell’arte, che è una parola difficile, arte è una parola, come scrive Flannery O’Connor, davanti alla quale la gente batte subito in ritirata, perché troppo altisonante, e anch’io faccio così, di solito, batto in ritirita, mi fermo ancora prima di pronunciarla, arte è una di quelle parole lì come amore, o come spirito, anche nella sua variante di spirito santo, o come natura, o naturale, anche nella sua forma avverbiale naturalmente, sono quelle parole che uno a dirle gli casca la faccia. 

Chissà perché, perché sono, non so come dire, non le puoi mica tenere in mano, non sono parole concrete come per esempio Salame,  o Bottiglione, non le puoi neanche vedere come per esempio la morte, che la morte ha quello di bello, che la puoi vedere, e sentire, e la vedi e la senti tutti i giorni, e allora la puoi anche dire, e lo stesso vale per nascita, arte invece, non so come dire, si fa fatica, però c’è della gente che l’ha studiata, questa cosa, degli esperti, in un certo senso, ma più che degli esperti a me verrebbe da dire degli inventori, e uno che ha inventato, o, meglio, scoperto, una teoria sull’arte che a me piace molto è un signore russo che si chiama Viktor Šklovskij che era uno dei principali esponenti di un gruppo di critici letterari dell’inizio del secolo scorso che si chiamavano Formalisti e che da noi, essendo russi, son diventati I formalisti russi, che è il titolo di un’antologia dei loro scritti curata da Todorov e uscita nel 1968.

Che quella lì è un’antologia, I formalisti russi, che davanti a quell’antologia lì la gente di solito batte in ritirata, che qui da noi, uno normale, ammesso che esita, a pensare ai formalisti russi si immagina qualcosa di grigio, di polveroso di quella polvere particolare che c’era nell’Unione Sovietica, e di astruso, e invece, andarli a leggere, con un po’ di pazienza, quei saggi lì raccolti da Todorov nell’antologia I formalisti russi, alcuni sono difficili molto, il saggio di Brik su ritmo e sintassi io per esempio non l’ho mai letto fino alla fine, di metrica russa non ne capisco niente e non ho mai avuto occasione di occuparmene, mi perdo subito, già quando parla del piede, cos’è il piede? Non so, ma ce ne sono alcuni che parlan di prosa, di Ejchenbaum, di Šklovskij, che sono dei piccoli capolavori di ingegno e di chiarezza, e ce n’è uno, in particolare, di Šklovskij, che è stato scritto nel 1917 e si intitola L’arte come procedimento che secondo me è un saggio utile non solo per leggre meglio le opere lettararie ma anche per stare al mondo.

E, per via del tema del nostro discorso, se è vero che Šklovskij in quel saggio lì parla sostanzialmente della scrittura, dell’arte intesa come letteratura, è anche vero che non dobbiamo arrivare subito alla soluzione, non è mica una caccia al tesoro, abbiamo cinquanta minuti, facciamo una cosa alla volta, cominciamo con la scrittura poi andiamo avanti arriviamo anche alle arti figurative e anche a quelle moderne, intanto mettiamoci d’accordo su quel che si intende con questa parola Arte, perché arte è una di quelle parole che ognuno ha la sua, dentro la testa, e queste diverse arti dentro le diverse teste son disegnate, se così si può dire, in un modo molto diverso l’una dall’altra, allora intanto vediamo, per quanto possibile, che cosa intendeva Šklovksij, quando parlava di arte. Šklovksij comincia col dire che l’arte è pensiero espresso per immagini. Poi dice Sembra l’affermazione di un liceale. Poi dice che però può essere anche l’enunciato di un dotto filologo, pronto a costruirci sopra una teoria letteraria, e è un po’ quello che fa lui, su questa affermazione, L’arte è pensiero espresso per immagini, costruisce una teoria letteraria che è destinata a durare decenni e che è conosciuta come la teoria dello straniamento.

Citando l’osservazione di Jakubinskij che in giapponese nel linguaggio poetico compaiono suoni che non compaiono nel giapponese parlato, Šklovksij parte dall’assunto che nel linguaggio artistico valgono regole diverse rispetto a quelle che valgono nel linguaggio ordinario. Se nel linguaggio ordinario, come dice Spencer, si cerca di esprimere il maggior numero possibile di pensieri con il minor numero possibile di parole, nel linguaggio artistico, secondo Šklovksij, le leggi dello sperpero e del risparmio di energie vanno prese in considerazione soltanto nel quadro delle leggi specifiche di quest’ultimo e non per analogia con quelle del linguaggio ordinario.

Proviamo a ricordarci, scrive Šklovksij, la sensazione che abbiamo provato la prima volta che abbiamo tenuto in mano  una penna, o la prima volta che abbiamo provato a parlare in una lingua straniera, e confrontiamola con la sensazione che abbiamo provato la millesima volta che abbiamo fatto  queste cose. Ecco, le leggi del  linguaggio quotidiano, con le sue frasi incompiute e le sue parole pronunciate soltanto a metà, si piegano ricorrendo proprio all’automatismo di certi processi, la cui espressione ideale è l’algebra, che sostituisce simboli agli oggetti.

Questo modo algebrico di pensare porta a concepire le cose come numero e spazio; noi non le vediamo, le riconosciamo dai loro primi e più appariscenti contrassegni, come le lettere con le quali cominciano. Ma la cosa, la cosa in sé, passa davanti a noi come avvolta in un involucro. Come se fosse imballata; sappiamo che esiste, che occupa sapzio, ma ne vediamo solo la superficie. Questo modo algebrico, secondo Šklovksij, è il modo di percepire le cose nel linguaggio ordinario, che ha il vantaggio di permetterci di risparmiare un massimo di energia percettiva.

Poi Šklovksij cita un passo dei diari di Tolstoj.

Con lo straccio della polvere in mano, scrive Tolstoj, feci il giro della mia camera; ma quando arrivai al sofà non sapevo più se lo avessi già spolverato o no. Poiché nello spolverare i movimenti sono abituali e inconsci, non riuscivo a ricordarmi se li avevo giù compiuti e sentivo per di più che non sarei mai riuscito a ricordarmelo. Se ho spolverato e poi ho dimenticato di averlo fatto, scrive, cioè se ho agito inconsapevolmente, è proprio come se non fosse successo niente…. Se la vita di molti uomini con tutta la sua complessità, scorre inconsapevolmente, allora è come se non ci fosse stata, scrive Tolstoj.

Così, commenta Šklovksij, la vita passa, si annulla. L’automatizzazione inghiotte tutto: cose, abiti, mobili, la moglie e la paura della guerra. Se la vita di molti uomini, con tutta la sua complessità, scorre inconsapevolmente, allora è come se non ci fosse stata.

Ecco secondo Šklovksij, per risuscitare la nostra percezione della vita, per rendere sensibili le cose, per fare della pietra una pietra, esiste questa cosa che noi chiamaiamo arte. Il fine dell’arte è di darci una sensazione della cosa, sensazione che deve essere visione, e non solo riconoscimento. Per ottenere questo risultato l’arte, secondo Šklovksij, si serve di due  procedimenti: lo straniamento delle cose, e la complicazione della forma, con la quale tende a rendere più difficile la percezione e a prolungarne la durata.

Šklovksij poi fa un esempio tratto ancora da Tolstoj, da un articolo intitolato Una vergogna! A un certo punto Tolstoj parla di uomini che vengono Denudati, gettati a terra e colpiti sullla schiena con le verghe, e colpiti ancora sulle natiche nude. Poi si chiede Perché ricorrere a questo metodo stupido e barbaro piuttosto che a un altro, per causare dolore a un uomo? Per esempio, perché non gli si conficcano degli aghi nelle spalle o in un’altra parte del corpo, perché non gli si serrano in ceppi le mani o i piedi, o non si inventa qualche altro sistema analogo? 

Tolstoj in questo passo descrive una cosa molto comune in Russia, alla sua epoca. Denudare degli uomini, gettarli a terra, e colpirli sulla schiena con le verghe, e poi colpirli sulle natiche nude, corrispondeva alla pratica della fustigazione. Se Tolstoj avesse detto Perché fustigare degli uomini, tutti avrebbero capito di cosa si tratta, ma la fustigrazione, la cosa in sé, sarebbe passata davanti ai lettori come imballata. Ognuno avrebbe richiamato il proprio concetto di fustigazione, avrebbe magari ricordato le discussioni sulla liceità di fustigare i servi della gleba, all’epoca in Russia c’era ancora la servitù della gleba, avrebbe ricordato la propria opinione in proposito e avrebbe pensato Ecco vedi, Tolstoj, rispetto alla fustigazione la pensa così. Rallentando il riconoscimento, allungando la visione, spereperando delle energie, anziché risparmiarne, buttando lì degli uomini denudati, gettati a terra, colpiti sulla schiena con le verghe e poi colpiti sulle natiche nude, Tolstoj risuscita, nei suoi lettori, la fustigazione, gliela rende sensibile, gliela fa vedere come se fosse nuova, gliela toglie dall’imballaggio, e il lettore non ha tempo di pensare alle sue convinzioni, ai dibattiti che ha sentito, ha gli occhi pieni di questi uomini denudati, gettati a terra e colpiti sulla schiena con le verghe e colpiti ancora sulle natiche nude.

 

Un altro esempio di Šklovksij, tratto sempre da Tolstoj, riguarda il concetto di proprietà, e viene dal racconto Cholstomer, storia di un cavallo,  dove l’io narante è proprio un cavallo, che dice:

 

Quello che dicevano della flagellazione e del cristianesimo lo capivo assai bene; a quel tempo però mi era ancora completamente oscuro il significato delle parole Il suo cavallo, dalle quali mi sembrava di intuire che, secondo l’opinione degli uomini, tra me e il padrone della scuderia dovesse esistere una qualche relazione. In che cosa consistesse questa relazione, allora non lo potevo comprendere. Solo molto più tadi, quando fui separato dagli altri cavalli, capii che cosa significasse questa espressione. Ma allora io non potvo comprendre che cosa volesse dire in concreto la mia attribuzione in proprietà ad un uomo. L’espressione Il mio cavallo si riferiva a me, un cavallo vivo, e mi appariva strana come le parole: la mia terra, la mia aria, la mia acqua.

Ad ogni modo queste parole mi facevavano una grande impressione e ci rimuginavo su costantemente. Il significato che gli uomini davano ad esse lo capii solo molto più tardi, quando ebbi fatto con loro le più svariate esperienze. Questo significato è il seguente: nella vita umana l’essenzaiale non sono i fatti, ma le parole. Agli uomini non importa tanto la possibilità di fare o non fare qualcosa quanto la possibilità di parlare di qualsiasi oggetto usando determinate parole convenzionali. Queste parole, che essi ritengono assai importanti, sono: mio, mia, miei; e si riferiscono alle cose più diverse; a esseri, a oggetti, persino alla terra, a uomni, a cavalli. Gli uomini hanno stabilito che può essere soltanto uno di loro a chiamare mia una determinata cosa. E chi, in questo gioco che hanno inventato, riesce a chiamare mio il maggior numero di oggetti, viene considerato il più felice. Io non so perchè le cose stiano così, ma in effetti stanno realmente così. Un tempo ho cercato di spiegarmele pensando che a questo riconoscimento fosse legato un qualche diretto vantaggio, ma questa supposizione si è rivelata erronea.

Ad esempio: molti tra gli uomini che mi definivano il loro cavallo non mi cavalcavano: a cavalcarmi era tutt’altra gente. Neppure mi davano il foraggio: anche questo erano altri a farlo. Del bene me lo fecero non quelli che mi chiavano Il mio cavallo, ma vetturini, veterinari o comunque persone estranee. Quando più tardi ampliai l’orizzonte delle mie osservazioni, mi convinsi che il termine Mio non si riferisce soltanto a noi cavalli, ma in generale poggia unicamente su un basso, animalesco istinto degli uomini, istinto che essi chamano sentimento di proprietà o diritto di proprietà. L’uomo dice La mia casa anche se non vi abita mai, anche se si occupa soltanto della sua costruzione e della sua manutenzione. Il commerciante dice Il mio negozio, ad esempio Il mi negozio di stofffe, ma non si fa confezionare i suoi abiti neppure con le migliori stoffe che vi tiene.

Vi sono uomini che chiamano Loro un pezzo di terra e non hanno mai visto questa terra né vi hanno mai messo piede. Vi sono uomini che dicono mio a proposito di altri uomini pure senza averli mai visti e sebbene l’unico raporto con loro consista nel farli soffrire. Vi sono uomini che dicono La mia donna, anche se questa vive con altri. E nella vita questi uomini non tendono a fare ciò che ritengono buono e giusto ma a definire come Loro il maggior numero possibile di cose.

Io sono convinto adesso che la differenza sostanziale tra noi e gli uomini stia proprio qui. Già per questo semplice fatto – e anche trascurando tutti gli altri vantaggi che abbiamo rispetto a loro – abbiamo il diritto di affermare che, nella gerarchia degli eseri vivienti, noi stiamo un gradino più su degli uomini. L’attività degli uomini, almeno di tutti quelli con cui io ho avuto a che fare, è determinata dalle parole, non dai fatti.

 

Ecco. Šklovksij poi fa molti altri esempi, uno celebre tratto da Guerra e Pace, dove viene straniato, cioè tolto dall’imballaggio, il teatro, uno tratto da una antica fiaba russa del governatorato di Perm, dove viene tolto dall’imballaggio l’atto sessuale, e tanti altri, da Boccaccio, da Sterne, da Esenin, da Severjan, da Puškin, da Chelbnikov.

E dice, non che concluda, conclude parlando di tutt’altra cosa, del ritmo, al quale, scrive, dedicherò un altro libro, ma prima dice, in sostanza, che il processo dello straniamento consiste nel guardare le cose, anche le cose ordinarie, anche le cose che ci sono più familiari, come se le si vedesse per la prima volta.

E a pensarci è vero, Tolstoj, in quel pezzo lì sulla fustigazione, è come se non conoscessse nemmeno il concetto di fustigazione, e allora è necessario descriverlo, farlo saltar fuori, guardare questo processo con stupore, come se lo si vedesse per la prima volta. E scrivere, in fondo, secondo me, è un po’ questo, è come farsi crescere dentro la pancia una macchina per lo stupore, e viene in mente Gianni Celati che da qualche parte se non sbaglio diceva che chi scrive è guidato dalla radice stu, quella con la quale cominciano le due parole Studente e Stupido, e io mi ricordo l’impressione bellissima che ho avuto quando ho cominciato a scrivere, che era per me come avere proprio la patente dello stupido, l’autorizione a essere stupido, a fare finta di non sapere le cose, e dopo qualche anno ho trovato Hrabal, lo scrittore di Praga, che diceva che a un certo punto, lui e un suo amico, nella libreria U zlateo tigra, erano passati dalla condizione di chi sa di non sapere, a quella di chi fa finta di non sapere.

E quando ho cominciato a scrivere io, a me è successo proprio quella cosa lì, che io guardavo a delle cose che conoscevo benissimo, come per esempio la mia casa, il condominio dove abitavo, i nomi delle strade che c’erano intorno, come se non li avessi mai visti, mi dimenticavo il mio lavoro, mi sun chi per laurà, alzavo la testa e guardavo la facciata del mio conominio come se non l’avessi mai vista, e la facciata del condominio usciva dal suo immballaggio, e questa cosa, delle volte, funzionava anche con le persone con le quali abitavo, anche con il mio gatto e la mia morosa, che d’un tratto, certe volte, uscivano dal loro imballaggio di gatto domestico e morosa domestica e risuscitavano come esseri viventi colpiti dalla luce di un dato momento della giornata intanto che respiravano, col sangue che pulsava, lì, in salotto, o in bagno, o sulla soglia della cucina.

Che lo straniamento, anche se, come teoria letteraria,  che viene fuori da quella frasetta là, l’arte è pensero epsresso per immagini, è stata, diciamo così, formulata, nel 1917, è un procedimento letterario che c’è sempre stato, che chi scrive ha sempre usato, sia prima della formulazione di Šklovksij che dopo, e una pagina secondo me in cui lo straniamento viene, non so come dire, usato, sfruttato, spiegato, declinato, in modo esemplare, è un pezzo di Ermanno Cavazzoni che è una parte di un libro che si intitola Gli scrittori inutili, che è un finto manuale di scrittura creativa.

Prima però volevo chiarire una cosa, perché uno che sentisse, adesso, questo discorso, magari potrebbe pensare Ma te, ai ciechi, a quelli che non ci vedono, gli vai a dire Dovete sforzavi di vedere le cose come se le vedeste per la prima volta? Non ti sembra di essere un po’, come dire, fuori tema? Ecco secondo me, questa cosa qua, mi sbaglierò, ci ho pensato anch’io, ma secondo me se noi prendiamo il verbo vedere in senso lato, come stretto parente del verbo sentire, percepire, Dovete sforzarvi di sentire le cose come se le sentiste per la prima volta, quella teoria lì dello straniamento funziona benissimo sia per i ciechi che per quelli che ci vedono e quell’obiezione lì, secondo me, è venuta in mente anche a me, ma poi mi è venuto in mente che un’obiezione del genere è più probabile che venga in mente a uno che ci vede, che a uno che non ci vede, ma forse mi sbaglio. Se mi sbaglio il mio discorso, avete ragione, non vale mica tanto.

Quel libro lì di Cavazzoni, dicevamo, è un finto manuale di scrittura, dove ci sono sette lezioni di scrittura come fossero lezioni private, un insegnante e uno studente, e ogni lezione si insegna un vizio capitale, Lussuria, Gola, Avarizia, Accidia, Invidia Ira, Superbia.

Dopo, adesso non c’entra niente, ma quando era appena uscito, io l’ho trovato alla libreria Mel qui di Bologna non tra la narrativa, tra i veri manuali di scrittura. E quando l’ho detto a Cavazzoni, lui m’ha detto che qualche anno prima, a Reggio Emilia, quando c’era ancora la libreria rinascita, c’erano allora quei libri i Castori, quelle monografie critiche, con un formato strano, quadrato, con una grafica di copertina strana e ne era uscita una su Sciascia, e in quella copertina c’era scritto solo il nome di Sciasca su due righe, si leggeva SCIA, sopra, e SCIA, sotto, tutto maiuscolo, e i librai della libreria Rinascita di Reggio Emilia l’avevano messo nello scaffale degli sport invernali. Ecco, questo per dire, anche se non c’entra niente. Allora da quel libro lì di Cavazzoni leggo la lezione d’invidia.

 

Lezione d’invidia

 

Se tu poi pensi di frequentare lo scrittorame, come mi sembra che tu già faccia, è vero?… che tu frequenti il bel mondo degli scrittori della capitale? che tu l’hai già visitato quello scrittore?… come si chiama? della capitale…, quello scrittore un po’ tracagnotto, che gli piacciono le donne, dice lui… come si chiama? dai! è famoso; è un po’ tarchiato, avrà novant’anni, con la faccia stanca, da vecchio, ne dimostra anche cento. Io per i nomi… ma come si chiama? Lo mettono ormai dappertutto, nelle guide turistiche: questa è la casa dovè è nato, scrivono, qui viene a mangiare, con quell’altra, come si chiama? quella scrittrice… che poi è la sua concubina, quella tremenda; che se l’intervistano dice: io e lui… c’è un sodalizio…, la scrittura… io e lui ci leggiamo tutto…, le sue mani… che chissà che cos’hanno! Tra l’altro ce le ha corte, grossolane. E lei dice: … le sue mani che battono a macchina e poi mi sfiorano… Ma se battono a macchina, come vuoi che ti sfiorino! E poi quello dev’essere un coglione! solo per la faccia che ha, sempre impegnata, sempre in servizio. Due sopracciglia, tutte farraginose… C’è sempre sui giornali di moda, perché lui è Lo Scrittore, e allora quando hanno bisogno di uno scrittore tirano fuori lui, che ha tutta già l’impostazione. Avrà scritto ormai cinquanta libri, tutti al passato remoto: Andai a casa, accesi la pipa…, cinquanta libri, tutti così: Suonarono alla porta. Andai ad aprire. La gente li compra e non li legge; perché cosa vuoi che ci sia da leggere? Quando uno ha letto una riga tutto il resto è uguale: La presi per mano. Tacque. Io pure taqui, e via di seguito. Si fa un libro al giorno così. Altro che cinquanta. Uno si mette lì alla macchina da scrivere, ne fa trecentocinquanta in un anno, e intanto sfiora anche la sua concubina, che anche lei poi è lì che scrive. Lei è specializzata però per scrivere cosa fa lui: Adesso è seduto, adesso scrive, adesso mi sfiora… E poi è specializzata a dire che cosa le fa, negli intervalli; che cosa le fa ad esempio con le mani: mi sfiora con le sue mani affusolate… che invece sono tozze, delle mani infelici, che se le vedesse un pittore si rifiuta di farci il ritratto. E invece ci sono dei pittori che l’hanno dipinto, dei coglioni! Lui e lei insieme, lo scrittore e la scrittrice, e gli hanno allungato le mani, che se no uno dice: ma quello è un analfabeta! E anche a lei le hanno dato l’aria dell’istruita, che se no sembra una pagnotta, … adesso mi sfiora, lei dice, e mi corre un brivido per tutta la pelle… perché lei ha la mania dei brividi e della pelle, chissà perché le piace l’idea che lui con quelle sue mani tronche un po’ scriva e un po’ la sfiori, scriva e la sfiori, così, per tutto il giorno, e allora lei, anche lei, le corre un brivido e scrive, un brivido e scrive, e via di seguito. Ne ha fatti dieci di libri, dove dice che scrive sempre; in quella casa non succede altro, si vede. Però di libri ne vende moltissimi; io non so che cosa se ne faccia la gente, sapere che due stanno in casa, due coglioni, identici, perché sono identici, sono la stessa pasta, centomila copie, foto su tutti i giornali, e sotto io ci scriverei: i due coglioni… il coglione con la coglionessa… ma come si chiamano? Hai capito però. E allora lo sai cosa? Frequentali! La mia lezione è questa: tu vai nella capitale, se proprio ne hai voglia, e li frequenti, così vedrai che anche tu vai sul giornale e sarai già uno scrittore della compagnia degli scrittori… Sto scrivendo un romanzo… puoi andare lì e dire, …sulla società… E puoi dire che quello là, quello scrittore là, è il tuo maestro, così vedrai che diventi scrittore subito, non hai bisogno di scrivere niente, tu ti presenti come il suo allievo, come ha fatto quell’altro, come si chiama? quello tutto educato, pieno di soldi, che ha detto: io sono il suo allievo, di quello vecchio, e un po’ l’allievo di lei, della concubina, però soprattutto è a lui che debbo il mio stile. Dimmi il nome, che tu lo saprai, che tu le segui queste faccende della capitale. No? niente? non sei informato? le ultime notizie tu non le sai? Ma è uno con la faccia da coglione, anche lui, come il suo maestro, perché è tutta una scuola; lui, quello vecchio, la convivente… una specie di frammassoneria di coglioni, che però si sostengono a turno, e l’allievo ha detto: tutto quello che ho imparato l’ho imparato da lui, e allora gli hanno chiesto di specificare, che cos’è questo tutto? E l’allievo ha detto: il coraggio! Hai capito? Il coraggio ha imparato; così, in generale. Anche tu quindi puoi andare a imparare il coraggio, ti metti con loro, e fate tutta una scuola che non ha paura di niente, neanche della vergogna. Tu, secondo me, lo conosci l’allievo. Dopo che è diventato scrittore si è messo anche a scrivere dei libri, uno dietro l’altro, sul suo rapporto con lo scrittore vecchio. Lo andava a trovare a casa, diceva l’allievo, e lo scrittore era là che scriveva a macchina e ogni tanto sfiorava la concubina, che appena sfiorata si metteva anche lei di riflesso a scrivere… mi ha sfiorato… le sue mani affusolate… E l’allievo allora, subito a scrivere! Stava di fianco su uno sgabello, e anche lui: … le sue mani… il suo coraggio… Perché lui più che i brividi, badava al coraggio, è questa la differenza con la concubina, e dopo, alla fine, uscivano tutti e tre, andavano in giro in mezzo ai giornalisti, ai fotografi, che se no se li scordavano, e da scrittori decadevano a poveri comuni coglioni, come sono. Però tra di loro non smettevano mai di tenersi d’occhio, che se no non avevano più materia prima. Poi quello vecchio all’allievo gli diceva: io, di donne… di qua e di là…, ovunque, anche in treno… anche in Vespa… Io di donne… non so se mi spiego?… io di donne, se vado in un posto… ce n’è una… subito!… Sono scrittore, le dico… e lei, subito! Che invece, lui, al massimo la sua concubina, e poi neanche, perché lei non aveva tempo, lei scriveva, e se non scriveva aveva i brividi, e allora gli diceva: aspetta! ho i brividi, aspetta che passino… e poi c’è il tuo allievo, sempre qui che ci guarda, che dopo ci scrive sopra un altro romanzo… aspetta!… domani forse, o dopodomani, quando passano i brividi. L’allievo invece credeva a tutto, scriveva che il suo maestro, con le donne… le portava in treno, e via! prima ancora di salirci sopra… sono scrittore, diceva… e via!, la donna subito!… prima ancora che arrivasse il treno… prima ancora di arrivare in stazione. Oppure partivano in Vespa… sono scrittore… e via! subito! in Vespa… non so come facessero… senza fermarsi… Perché lo scrittore, diceva l’allievo, lui esercitava un fascino che non c’erano più ostacoli, non c’era più segnaletica, ci ha scritto un libro sopra, centomila copie, ma sono tutte balle; lui quando saliva sul treno gli veniva sonno invece, e se c’era una donna, anche a lei veniva subito sonno, alle donne lui gli fa questo effetto; se ne porta una in Vespa, lei casca giù, perché si addormenta, e anche lui mentre guida la Vespa deve fermarsi continuamente a dormire. Centomila copie di balle. Adesso mi verrà in mente come si chiama: lui, l’allievo, la concubina; sono celebri, dei contaballe però. Ecco, tu mettiti al loro servizio che così diventi celebre. Conti un po’ di balle… che io invece prima di scrivere una parola ci penso un anno; io una parola la valuto, e allora sono lentissimo, una distilleria. Tu non far come me. Vai alla loro scuola… e via! subito un libro! Poi il mese dopo, via! un altro… uno sopra l’allievo, uno sulla concubina… e il mese dopo, via! il terzo, tutto sullo scrittore vecchio ad esempio, sulle sue mani… e poi via! un altro sulle sue donne… e un altro solo sopra la Vespa! e allora vedrai la celebrità… che io invece, fosse per me, io ti direi: scrivi una parola ogni tre anni, e poi per i tre anni dopo ripensaci, e non farti vedere mentre sei lì che ci pensi. Ché se uno scrive dieci parole in tutta la vita, cinque da giovane e cinque da vecchio, forse è anche troppo. Però se vuoi il successo, facilmente e garantito, va’ nella capitale, vatti a far frammassone, fatti furbo, diventa coglione. Arrivederci.

 

Ecco. Non so se si capisce. A me sembra che si capisca bene, solo che una volta, a Piacenza, ho letto questa cosa in pubblico, alla fine mi hanno chiesto Ma chi era, quello scrittore lì? Che io, adesso, chi era non è che poi sia importante, la cosa importante è che non si sappia, chi era, perché se quello che teneva la lezione si ricordava chi era, la lezione finiva lì. Hai presente quello lì? Come si chiama? Moravia. Ecco, tu fai una cosa, fai amicizia con lui dopo poi sei a posto.

Invece, il fatto di non ricordarsi, di doverlo descrivere come a uno che non lo conosce, fa saltar fuori una cosa che poi non è neanche importante, sapere chi era. Allora, anche questo, non so se si capisce, credo che si capisca benissimo, perdonatemi se dico delle cose scontate, ma l’impressione che ho io, è che per scrivere, e per fare arte, in generale, più che sapere, è importante dimenticare, più che abbassare la testa a lavorare, è importante alzarla a guardar delle cose che di solito non guardiamo mai, che diam per scontate, e invece appena le guardiamo ci accorgiamo che non sono scontate per niente, perché l’arte, secondo me, il punto da cui viene, e quello che produce, ha veramente a che fare con lo stupore, ha la sua radice, io credo, in quel momento che il mondo ti prede di sorpresa, che delle volte, tra l’altro, una cosa importante, non so come dire, è andare a pisciare, come insegna il matematico francesce Poincaré che nel suo libro La scienza e l’ipotesi racconta che una volta, eran dei mesi che lavorava su delle equazioni complicatissime che non ci saltava fuori, Sai cosa faccio? ha pensato, Vado a fare una gita, ha preparato lo zaino, si è svegliato presto, è andato alla fermata della corriera, quando ha messo il piede sul primo gardino della scaletta della corriera, gli è venuta in mente la soluzione di quelle equazioni complicatissime. Ha fatto la sua gita, è tornato a casa, ha verificato, eran perfette. Non so se si capisce. Comunque con questo, finisce la parte introduttiva, che è stata un po’ lunga, magari sforo, avevo detto cinquanta minuti, magari sarà un’ora, un’ora e cinque. 

[continua]