Un inizio

domenica 23 Marzo 2014

Jamses M. Cain, La falena

 

 

 

 

 

 

 

La prima cosa di cui ho ricordo è una grossa falena caudata. L’avvistai in Druid Hill Park, proprio all’inizio della strada dove sorge la nostra casa, a Baltimora, sulla terrazza di Mont Royal. Nelle giornate nuvolose fa piuttosto buio, e lucciole, pipistrelli e rondini spuntano fuori in un intrico di segnali. Un giorno in cui il cielo aveva il colore dell’ardesia bagnata, mi trovavo lì con Jane, la bambinaia nera, e quella cosa cominciò a svolazzare intorno. La seguii per un po’, da un muro a una siepe, a un cespuglio, e infine corsi in cerca di Jane, perché potesse vederla anche lei. Al ritorno, trovai lì un ragazzo che avrà avuto dieci o dodici anni, ma che allora mi sembrò più grande di quanto, tempo dopo, doveva sembrarmi un centromediano di Yale. Brandiva un bastone col quale tentava di abbattere la falena. Mai in vita mia, in sogno, su un campo di battaglia o altrove, provai una sensazione di orrore paragonabile a quella. Strillai da far saltare i timpani. Quando Jane intervenne, disse al ragazzo di smetterla, ma quello continuò a picchiare. Lei gli strappò il bastone dalle mani. Lui le sferrò dei calci e lei glieli restituì sugli stinchi. Poi lui sputò, ma io non guardavo nemmeno. Non avevo occhi che per quella splendida cosa verde, tutta palpitante di luce, che si allontanava svolazzando tra gli alberi, libera e viva. Era una sensazione che immagino gli altri provino pensando a Dio, in chiesa. Sembrerà forse assurdo dire che a volte, nel corso della mia vita, quando qualcosa accadeva dentro di me, fui in grado di spiegarne il significato con la pallida, verdeazzurra tinta luminosa che la sensazione sprigionava.
Assurdo, ma è così.
L’altro mio ricordo è una pera Bartlett. Me l’avevano affidata le zie, i primi giorni di scuola, perché la portassi alla maestra, la signorina Jonas. Nel cortile posteriore sorgeva un albero di pere, e a loro era venuta non so perché l’idea che bisognava regalarne una a Miss Jonas. Così Sheila uscì a coglierne una grossa, gialla e leggermente rosata, e mi spedì fuori con quella tra le mani. La scuola distava tre isolati. Al secondo annusai la pera. Al terzo la addentai. Quando giunsi a scuola ero a mani vuote e cominciai a preoccuparmi. Fu il giorno in cui ci vennero distribuiti dei cartellini, ciascuno con il proprio nome, e scoprii che il mio non era Jack, ma John. Era una novità, ma avevo altro a cui pensare. Rincasando, trovai zia Nancy che, in grembiule di cotone a scacchi e in testa una lobbia del babbo, rastrellava le foglie del cortile. Mi condusse all’interno, mi fece sedere, mi porse il latte ed eccoci al punto: mi ero ricordato di dire a Miss Jonas che speravo gradisse la pera, o invece gliel’avevo tesa senza aprire bocca? E sentii le mie labbra muoversi e snocciolare la peggior frottola che potessi imbastire – di come Miss Jonas era andata in estasi, aveva detto che la gradiva moltissimo, specie perché non c’era nessun albero nel suo cortile, e che perciò era felicissima e lusingata dell’attenzione. La cosa passò liscia, e la verità non venne mai a galla. Eppure, sotto sotto, ci fu una sensazione di colpa, forse la prima che avessi mai provato in vita mia, quella che poi riapparve in seguito a certi lavoretti combinati più tardi: una sensazione rossastra e scottante, tanto prossima al colore della pera quanto i momenti felici sarebbero stati a quello della falena.

[Jamses M. Cain, La falena, traduzione di Giovanni Fletzer, Milano, Isbn 2014, pp. 5-6]