Un giro in ospedale

martedì 23 Giugno 2015

Michail Bulgakov, I racconti di un giovane medico

Il mio aspetto giovanile mi avvelenava l’esistenza fina dai primi passi. Ero costretto a presentarmi a tutti: `«Dottor tal dei tali».
E tutti immancabilmente inarcavano le sopracciglia e domandavano: «Possibile? E io che la credevo ancora studente!»
«No, ho finito gli studi» rispondevo cupo e pensavo: “Mi debbo mettere gli occhiali, ecco cosa”. Ma mettere gli occhiali non serviva a nulla: i miei occhi erano sani e la loro limpidezza non era stata ancora offuscata dall’esperienza. Non avendo la possibilità, quindi, di difendermi con l’aiuto degli occhiali dagli eterni sorrisi indulgenti e affettuosi, cercavo di assumere un atteggiamento che ispirasse rispetto. Mi sforzavo di parlare in modo grave e misurato, di trattenere, nei limiti del possibile, i movimenti bruschi, di non correre come fa la gente a ventitré anni, appena finita l’università, ma di camminare. E tutto questo, adesso che sono passati tanti anni lo capisco, mi riusciva molto male.
In quel momento, tuttavia, violai il mio codice di condotta non scritto. Sedevo rattrappito, con ai piedi solo i calzini, non nello studio, ma in cucina; come un adoratore del fuoco mi tendevo ispirato, appassionatamente verso i ciocchi di betulla che ardevano nella stufa. Con la mano sinistra tenevo una tinella capovolta, sulla quale stavano le mie scarpe e accanto c’era un gallo mondato, spennato, con il collo insanguinato; vicino al gallo, il mucchio delle sue penne multicolori. Perché in realtà, ancora intirizzito, avevo tuttavia compiuto una serie di azioni, che era la stessa vita a esigere. Avevo nominato mia cuoca la moglie di Egòrič, Aksìnija dal naso impertinente. E in conseguenza di ciò il gallo aveva perso la vita per opera sua. Io dovevo mangiarlo. Feci intanto conoscenza con tutti. L’infermiere si chiamava Dem’jàn Lukič, le ostetriche Pelagèja Ivànovna e Anna Nikolàevna. Feci un giro dell’ospedale e potei convincermi pienamente che di attrezzature e strumenti era ricchissimo. Con la stessa certezza fui costretto a riconoscere (tra di me, naturalmente) che la funzione di molti di quegli strumenti dallo splendore virgineo mi era completamente sconosciuta. Non soltanto non li avevo mai tenuti in mano, ma, lo riconosco francamente, non li avevo neanche mai visti.
«Hmm…» borbottai in maniera indistinta, ma molto significativa. «Avete degli strumenti magnifici, però. Hmm…»
«Certo», osservò dolcemente Dem’jàn Lukič, «e tutto per merito del vostro predecessore, Lepopòl’d Leopòl’dovič. Operava dalla mattina alla sera».
A quel punto mi sentii inondare di sudore freddo e guardai tristemente i lucenti armadietti a specchi.
Dopo, facemmo il giro delle camerate vuote e io constatai che ci si potevano comodamente sistemare quaranta persone.
«Lepopòl’d Leopòl’dovič a volte ne aveva anche cinquanta», mi consolò Dem’jàn Lukič e Anna Nikolàevna, una donna con una corona di capelli canuti, disse non so a che proposito:
«Lei, dottore, ha un aspetto così giovanile, così giovanile… Davvero è strano. Pare uno studente.»
“Ah, diavolo”, pensai. “Sembra che si mettano d’accordo, parola d’onore”.
E borbottai tra i denti seccamente:
«Hm… no, io… cioè, io… sì, ho un aspetto giovanile».

[Michail Bulgakov, I racconti di un giovane medico, traduzione di Chiara Spano, Roma, Newton Compton 1974, pp. 32-34]