Perquindi (un discorso mai pronunciato)

martedì 1 Maggio 2012

[Oggi dovevo fare due discorsi, uno a Parma, e uno a Treversetolo, alle manifestazioni della Cgil per il primo maggio di Parma e di Traversetolo. Solo che piove e la manifestazione di Parma è stata annullata, e quella di Traversetolo non si sa. Perquindi, io sto a casa, e il discorso lo metto qua sopra: è un po’ lungo, e ci sono, probabilmente, diversi refusi]

Il dolce far niente
discorso sul lavoro
che avrebbe dovuto essere pronunciato il primo maggio 2012
alla fattoria di Vigheffio (Parma)
e in piazza Fanfulla (Traversetolo),
nell’ambito delle manifestazioni organizzate dalla Cgil
di Parma e di Traversetolo
per il primo maggio 2012,
e invece non è stato pronunciato né a Parma né a Traversetolo

Buongiorno, si sente? Grazie. Allora, buongiorno, buonasera; io mi chiamo Paolo Nori, sono di Parma, scrivo dei libri, e mi hanno chiamato qui, per il primo maggio, a parlar del lavoro, che è una cosa che io, una quindicina di anni fa, quando ho cominciato a scrivere dei libri, non avrei mai detto, che mi avrebbero chiamato i sindacati a parlar del lavoro in occasione del primo maggio, perché io, il lavoro, cerco di lavorare il meno possibile.
Mi viene in mente una cosa che ho scritto anche in un libro, che non so se vi ricordate, ma qualche anno fa, forse tre anni fa, per radio c’era una pubblicità dove c’era una signora che diceva Ahmed, ripeti con me: Mi sun chi per laurà. E c’era questo Ahmed che diceva Mi sun chi per Laura. No, diceva la signora, non per Laura, per laurà. E Ahmed diceva Per laurà. Bravo Ahmed, diceva la signora, vedi che è facile? E poi si sentiva una musichetta e poi la voce di uno speaker che diceva che era una campagna di un qualche ministero per non mi ricordo che scopi.
E a me, non so, mi era venuto in mente che nei romanzi stranieri del sette e dell’ottocento, una delle espressioni italiane che avevo trovato più spesso, scritta in corsivo e con una nota che diceva In italiano nel testo, era: il dolce far niente.
Allora, non so come dire, avevo l’impressione che a noi, i casi erano due, o ci prendevano per degli altri, oppure ci stavano cambiando proprio i connotati.
Sempre in quel periodo lì, nella biblioteca sala borsa di Bologna, nel bagno degli uomini, qualcuno aveva scritto sulla porta la traduzione di una frase che doveva essere stato una specie di manifesto dei situazionisti.
Non lavorate mai, c’era scritto con un pennarello nero, e di fianco un cerchio attraversato da una freccia piegata che doveva essere il simbolo dell’autonomia.
E sotto qualcun altro aveva scritto, sempre con un pennarello nero: E chi ci ha mai pensato.
Ecco io, quelle cose lì, il dolce far niente, e quella scritta sul bagno della sala borsa, devo dire, le capisco, così come capisco un anarchico di Cremona che si lamentava degli anarchici che all’inizio del secolo nelle manifestazioni protestavano al grido di Pane e lavoro, e diceva che era sufficiene chiedere Pane, Pane e basta, dovevano gridare, secondo lui, e allo stesso modo mi sembra di capire una poesia di Nino Pedretti, che è un poeta romagnolo che scrive delle poesie che io trovo memorabili, una per esempio si intitola Partigiani e non c’entra molto, con il primo maggio, ma siccome il 25 aprile è appena passato mi fa piacere leggere anche quella che fa così:

I partigiani

Non è per via della gloria, che siamo andati in montagna, a far la guerra. Di guerra eravam stanchi, di patria anche. Avevamo bisogno di dire: lasciateci le mani libere, i piedi, gli occhi, le orecchie; lasciateci dormire nel fienile, con una ragazza. Per questo abbiam sparato, ci siamo fatti impiccare, siamo andati al macello col cuore che piangeva, con le labbra tremanti. Ma anche così sapevamo che di fronte a un boia di fascista noi eravam persone, e loro marionette.

Quella invece che c’entra con il primo maggio si intitola I nomi delle strade, è sempre di Nino Pedretti e fa così.

I nomi delle strade

Le strade sono
tutte di Mazzini, di Garibaldi, son dei papi,
di quelli che scrivono, che dan dei comandi, che fan la guerra.
E mai che ti capiti di vedere via di uno che faceva i berretti
via di uno che stava sotto un ciliegio via di uno che non ha fatto niente
perché andava a spasso sopra una cavalla.
E pensare che il mondo è fatto di gente come me
che mangia il radicchio alla finestra
contenta di stare, d’estate, a piedi nudi.

Ecco. Questo volevo dirlo come premessa, che a me, anche il non far niente, è una cosa che mi piace.

Poi volevo dire che stamattina, quando mi son svegliato, alle sette e mezza, ho sentito un rumore, che mi sembrava di conoscerlo, mi sono affacciato alla finestra e ho visto un camion della spazzatura, con uno spazzino che lo caricava, e dopo, dall’altra parte della Porrettana, io abito a Casalecchio di Reno, su via Porrettana, c’era un autobus, che andava, e allora ho pensato che oggi, primo maggio, festa del lavoro, c’è della gente che lavora, io faccio questi pensieri che non son dei pensieri molto sofisticati, mi ero anche appena svegliato, bisogna, dire, ma delle volte li faccio anche da sveglio, son dei pensieri così, da poco, oggi primo maggio c’è della gente che lavora che, tra l’altro, subito dopo m’è venuto un altro pensiero simile che oggi, primo maggio, dovevo lavorare anch’io, che dovevo scrivere questo piccolissimo discorso che si avvia ormai alla fine che voi siete qui per sentire dell’altra roba e non è giusto che io approfitti di questo microfono che mi avete dato per dei quarti d’ora, no no, ho quasi finito, aggiungo soltanto che quella cosa lì, quello spazzino, quell’autista dell’autobus di stamattina, per il fatto che stamattina era il primo maggio, il loro lavoro prendeva un significato che a me sembrava più forte, c’era come un aura, intorno a quell’autobus e intorno a quel camion della spazzatura, e, forse, dopo, c’era anche intorno al mio computer, ma forse no, che io faccio un lavoro un po’ così che si fa anche fatica a chiamarlo lavoro e forse è proprio per quello che a me piace tanto. Che quando lavoravo facendo dei lavori veri, quando per esempio facevo l’apprendista salumaio, nei prosciuttifici di San Vitale Baganza, tre mesi d’estate, che avevo sedici anni, o quando per esempio facevo il facchino per il colle all’Althea di via Budellungo a Parma, che avevo trent’anni, e è stato il primo lavoro che ho fatto dopo la tesi, io mi ricordo che anche lì c’eran delle cose che mi piacevano, per esempio quando finivo di lavorare io ero così contento che mi sarei strappato i capelli, dal tanto che ero contento, se si capisce; dopo, la penultima cosa che vorrei dire, è una cosa a cui ho pensato una volta che sono andato a presentare un romanzo che era un romanzo sui giochi elettronici, e, a pensare ai giochi elettronici, io avevo pensato che io, che nel 1963, per me e per quelli come me, il mondo era forse un po’ diverso da quello delle generazioni precedenti.
Era una cosa che ho poi scritto anche dentro un romanzo, e po l’ho riscritta anche dentro un altro romanzo, e dev’essere una cosa che mi sembra che sia interessante perché tutte le volte che avevo l’occasione di dirla la dico, e così anche oggi.
E praticamente consiste nel fatto che quelli che son nati negli anni venti, e che avevano vent’anni negli anni quaranta, avevan dovuto combattere perché c’era la guerra e servivano dei soldati. Quelli che son nati negli anni trenta, e avevan vent’anni negli anni cinquanta, avevan dovuto lavorare perché c’era stata la guerra e c’era un paese da ricostruire. Quelli che son nati negli anni quaranta, e che avevan vent’anni negli anni sessanta, avevan dovuto lavorare anche loro perché c’era il boom economico e una grande richiesta di forza lavoro. Quelli che son nati negli cinquanta, e che avevan vent’anni negli anni settanta, avevan dovuto contestare perché il mondo così com’era stato fino ad allora non era più adatto alla modernità o non so bene a cosa. Poi eravamo arrivati noi, nati negli anni sessanta e che avevamo vent’anni negli anni ottanta e l’unica cosa che dovevamo fare, era stare tranquilli e non rompere troppo i maroni.
Mi sembrava che noi, avevo detto, fossimo stata la prima generazione che, se ci davano un lavoro, non era perché c’era bisogno, ci facevano un favore.
Cioè era come se il mondo, che per i nostri genitori era stata una cosa da fare, da costruire, per noi fosse già fatto, preconfezionato, e l’unica cosa che potevamo fare era mettere delle crocette, come nei test.
E allora aveva anche senso, che proprio in quel periodo lì, negli anni ottanta, fossero comparsi in Italia i giochi elettronici, perché uno di vent’anni che passava sei o otto ore al giorno a giocare ai giochi elettronici, che negli anni cinquanta sarebbe stato un disadattato (Sei un delinquente, gli avrebbero detto i suoi genitori), a partire dagli anni ottanta andava benissimo, perché rispondeva al compito precipuo della sua generazione, di stare tranquillo e non rompere troppo i maroni.

Noi, quelli che avevano la nostra età, la mia età, quarantotto anni, il nostro strumento, la nostra leva per farci spazio, nel mondo, per noi non era più, com’era stato per le generazioni precedenti l’entusiasmo, o il dovere, o il senso di sacrificio, o la speranza di un mondo migliore o non so cosa. No. Noi, la nostra leva, quello che ci costringeva a entrare nel mondo, per noi, era la disperazione, mi sembrava.

Ecco, quando poi è uscito, quel libro, qualcuno mi ha chiesto cosa penso di quelli che son nati negli anni settanta, negli anni ottanta e negli anni novanta, e quello che penso, io ne so poco, ma mi sembra che anche per loro, la situazione sia identica alla nostra, con una differenza, però, forse ce ne sono di più, io ne vedo una, che almeno noi quando lavoravamo ci pagavano, loro, quando cominciano a lavorare, non li pagano, e questa, secondo me, è una cosa orribile.

Però, la cosa che mi viene da dire, è che noi, anche noi, nati negli anni sessanta, che abbiamo quasi cinquant’anni, ormai, siam quasi vecchi e non siam quasi entrati, nel mondo, siamo ancora lì, in un angolo, che ci ricordiamo che ci han detto di non rompere troppo i maroni, e allora, la prima volta che ho letto la poesia con la qualche voglio concludere questo breve intervento, e vi ringrazio molto di avermi invitato e di avermi dato la possibilità di lavorare il primo maggio, la prima volta che ho sentito questa poesia con la quale concludo, dicevo, ho pensato che era stata scritta per me, anche se avevo quasi cinquant’anni mentre la poesia è dedicata a dei bambini, l’ha scritta Mariangela Gualtieri osservando dei bambini che partecipavano ai laboratori del teatro delle briciole di Parma, e si intitola Sermone ai cuccioli della mia specie e fa così:

Cari cuccioli, vi ho guardato a lungo. Ero lì nascosta nel buio e vi guardavo giocare, nascosta nel buio come una carogna, come una spia che studia il nemico, come un ladro che aspetta il momento buono, come un terrorista che guarda a distanza e fa i suoi piani d’innesco. Io vi guardavo ammutolita, intenerita da voi, cari cuccioli della mia specie, e poi anche disgustata da voi che eravate lì inermi a un palmo dal mio naso.
Siete indeboliti cuccioli. Siete spaventati e soli. Siete avidi. Siete sazi. Siete svuotati. Sfiniti siete. Siete vinti.
Io vi guardavo da una quasi nausea, da tutto quel buio: ricordavo un’antica infelicità d’infanzia, un’antica paura. ricordavo bene quell’essere fra gli altri, spersa, sola. La mia paura me la ricordavo, guardando la vostra. Ricordavo bene il mio sguardo, come se lo avessi sempre visto da fuori: sbigottito, quasi non ci credevo d’essere in questo mondo, non me lo spiegavo, il mondo, non mi raccapezzavo. Come precipitata ero, dalle altezza caduta molto giù, molto di lato, nel mondo degli uomini e delle donne. Nel mondo delle case di mattoni. Nel mondo dove si lavora e si mangia e si dorme e si fa la cacca ogni giorno e ogni giorno si fa la pipì tante di quelle volte e si mangia e si dorme e ci si lava la faccia.
Da dentro quello sguardo, chiusa lì dentro nella mia fortezza io guardavo il mondo dei grandi e provavo una grande pietà. Io li sentivo che piangevano dentro. Sentivo che non ce la facevano. Li sentivo gridare dentro. Con muri dentro, con scarafaggi e muffe, dentro. E un giorno, quando ero molto piccola, ho fatto un giuramento, un giuramento infante, senza le parole, ma chiarissimo e sonante: io me li prendo tutti nel petto e li scampo, li porto in salvo.
Ho giurato così, senza dire neanche una di queste parole, ma con tutte queste parole più forti cento volte. Nel mio letto, vicino al grande armadio con lo specchio, fra le sponde altre di legno, con la sorella vicina che tossiva, giuravo forse ogni notte, per quella tosse, per la faccia stanca del mio babbo, e per tutte le facce dei grandi, coi loro segni come di grande pena. Una bambina nel suo letto ha fatto il giuramento, recitato la formula che salva, forse ha vinto sulla morte e sul mondo.
Aspettavo il giorno in cui mi avrebbero detto il grande segreto. Sentivo, lo sapevo, che dietro al loro non dire niente si nascondeva la grande verità. Sentivo, lo sapevo, che loro sapevano tutto quello che io non sapevo. Sentivo che un giorno me lo avrebbero detto e io avrei capito il mondo e non avrei sofferto come loro, perché loro stavano già soffrendo anche per me. Sentivo e aspettavo.
Poi molto piano, molto in ritardo, molto piano, millimetro dopo millimetro, in un lavorio di tic tac e minuti molto piccoli, piano piano, sono passata di là, sono caduta del tutto nel mondo, appiattita, schiacciata al suolo in un lento atterraggio.
Adesso, cari cuccioli, io sono grande. Sono molto grande. Sono quello che mai e poi mai avrei voluto essere: una persona grande. Adesso io sono dei loro. Adesso lontanissima sono dai miei favolosi sette anni, quando ero un genio buono, uscito da poco dalla lampada, e un filosofo ero, ma senza le parole, un grandioso poeta analfabeta, un artista senz’arte.
Adesso da qui, da questo esilio duro, da questo corpo con peso, da questa mente complicata, da questa mente ingombrante, da qui, da questo buio che è tutto il mio, da qui vi guardo, adorandovi. Vi chiedo aiuto. Una parte di me vi supplica, vi implora, vi chiede aiuto e aiuto. Adesso tocca a voi salvarmi, fare il giuramento. Potrete? Ci riuscirete? Mi sentite? Sentite?
Dicono che siete rotti. Siete sazi, dicono. Corrotti. Rovinati siete, come tutto il resto. Anche voi nella lista lunga delle perdite: l’acqua, l’aria, il silenzio, il pudore… Anche voi. Stuprati siete, rotti. Vecchissimi e troppo stanchi per l’infanzia. Scarichi. Vuoti.
Allora adesso imparate. Imparate l’odore dei nemici potenti. Sbranate, cuccioli, le loro mani piene. Scassate le loro tane come galere. Sputare sui loro piatti. incendiate le stanze gonfie di giocattoli, scappate, morsicate, tirate pietre sui televisori, scalciate, spaccate questo micidiale nostro sogno, l’inesauribile bisogno di confort, fateci a pezzi, scancellate noi, puniteci per aver fatto di voi le nostre miniature, per avervi disinnescati, resi innocui, per non avervi ascoltati, nel vostro sommo sapere.
Voi che eravate le porte del regno dei cieli e chi non passava da voi non passava, voi che eravate purissima gioia, voi che eravate noi bloccati nella più grande bellezza, voi che somigliavate ai cuccioli degli altri animali, voi che capivate lo splendore misterioso degli animali, voi che dormivate un sonno perfetto e benedetto, voi che vi svegliavate ridendo, voi che facevate balletti strepitosi. Voi, nostre divintà domestiche.
Nascete ancora, cuccioli. Restate. Siate. Salvate. Giurate. Siate. Siate. Siate.