Un altro pezzetto

giovedì 13 Ottobre 2011

[Del discorso sui libri che si conservano che leggo domani alla Biblioteca di Discipline Umanistiche della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna]

Che, a pensarci, è normale, perché uno, l’ho detto prima, cioè quello lì, è un incanto, è una specie di miracolo, che tu sei concentrato con la testa, con gli occhi, con la bocca, con le orecchie sopra una cosa, e il fatto di esser concentrato sopra quella non determina il fatto che il mondo sparisce, il mondo diventa più mondo, si illumina, e quando hai finito, non so come dire, hai voglia di mondo, hai voglia di parlar con la gente, hai voglia di camminare, hai voglia di muovere i piedi, son quei momenti che ti viene in mente che i piedi son fatti per camminare, non per essere coperti con delle scarpe, per camminare, per farti stare in piedi, e dopo che hai finito un libro che vale la pena, non so come dire, stai in piedi, solo che, ci sono due cose, che mi vengono da pensare, che il bisogno dei libri, è un po’ un brutto segno, in un certo senso, perché quell’incanto, quell’attrazione per il mondo, noi ci veniamo al mondo insieme, con quell’attrazione lì, e poi piano piano, man mano che diventiam grandi, quell’incanto, forse, sparisce, e abbiamo bisogno di qualcosa che ci aiuti a vedere, a sentire, e allora, per me, quella cosa lì sono i libri, che sono come delle lenti che mi aiutano a vedere meglio le cose, e degli eccitanti che mi aiutano a non dormir tutto il tempo, ma quando ero piccolo, secondo me, non ne avevo bisogno, che mi svegliavo al mattino che ero contento, e le mie gambe, quando ero piccolo, forse mi sbaglio, ma io ho come un ricordo che lo sapevano loro, che le gambe son fatte per camminare, e per correre, e così è la Battaglia, che adesso ha sette anni e le piacciono, i libri, però ancora, non so come dire, non ne ha bisogno, può stare anche senza libri, io, invece, star senza libri, non so come farei, e questa era la prima cosa, la seconda è che, per esempio, nella mia libreria, io adesso non ho molti libri, ne avrò, non lo so quanti ne ho, posso dire una cifra così a caso, comunque ne ho tanti, non molti, ma tanti, un po’ anche in cantina, Ipnosi a mappe cerebrali, e anche degli altri, e di quelli che ho in casa, quelli che mi è venuta voglia di camminare, dopo che li ho letti, saranno, non so, il dieci per cento, gli altri non lo so perché ce li ho, un po’ me li han regalati, come Il grande libro della città di Sassuolo, ma gli altri, non so, un po’ per dovere, per mestiere, il tentativo, lo dicevo prima, di ritrovare quella roba là, una coazione a ripetere che però non funziona, che questo è un campo, la letteratura, che anche questo è un po’ un incantesimo, anche per chi i libri li scrive, Sklovskij diceva Ogni volta che comincio a scrivere un libro, mi sembra sempre che sia un’impresa al di sopra delle mie forze e poi, all’improvviso, mi trovo che l’ho scritto, e non so neanch’io come ho fatto, ecco gli scrittori, secondo me, quelli bravi, sono un po’, anche, come dei maghi, forse, Brodskij diceva che l’armamentario dello scrittore in prosa è Una valigia piena di trucchi, come un illusionista, solo che gli scrittori secondo me non sono illusionisti, sono tutti realisti, anche gli scrittori di fantascienza, però come carattere secondo me ci assomigliano, agli illusionisti, mica tutti, che discorso, però, non lo so, adesso c’è un libro, bellissimo, The Catcher in the Rye, il giovane Holden, di Salinger, dove il protagonista, è una cosa risaputa, trida come l’Albania, dicono a Parma quando voglion parlare di una cosa che è trida come l’Albania, il protagonista a un certo momento dice che lui quando legge un libro che gli piace vorrebbe telefonare a quello che l’ha scritto, ecco io a me quella cosa lì non mi succede mai, io credo che per chi legge i libri sia meglio, delle volte, non conoscere quelli che li scrivono, perché, adesso non sempre, però delle volte sarebbe come conoscere un prestigiatore, non so, Silvan il mago, io una volta qualche anno fa, prima ancora di laurearmi, sono stato in provincia di Bergamo a fare un seminario di lingua russa e lì, in quella villa del settecento, avevo conosciuto la figlia di Silvan il mago.
La figlia di Silvan il mago mi diceva che vivere con un mago è una cosa impegnativa. Che i maghi, si vede, sono persone sensibili, così mi diceva la figlia di Silvan il mago. Che se te non gli presti attenzione, ai maghi, loro ci restano male, mi diceva la figlia di Silvan il mago.
Che Silvan, al mattino, quanto tutta la famiglia di Silvan il mago era riunita per far colazione, lui entrava in cucina, Silvan il mago, con il suo bel sorriso da mago Ho inventato una magia nuova, diceva. Ve la faccio vedere? diceva.
Allora, mi diceva la figlia di Silvan il mago, c’eran tutti i famigliari di Silvan che abbassavan a testa, sospiravano Che due maroni, dicevano piano tra i denti. Tutti i giorni una magia nuova, poveretti.
Gli scrittori, mi sembra, sono un po’ tutti come Silvan il mago, secondo me. Che io, i miei familiari, i primi tempi che scrivevo mi chiedevano di leggere i miei romanzi prima ancora che li finissi, dopo quando glieli davo li leggevano subito, mi telefonavano, Bello, quel romanzo lì, mi dicevano, Bellissimo, mi dicevano.
Solo un anno dopo, quando avevo finito di scrivere il mio quinto romanzo, gliel’ho dato a Emilio, mio fratello, lui non mi ha mai detto niente, appena mi vedeva si metteva a cantare Una vita da mediano, di Ligabue.