Tutto tranne che il liscio (secondo giorno-2)

lunedì 1 Giugno 2009

Tornato da militare, era l’ottantacinque, mi era successa una cosa stranissima. Il bar Riviera, piazzale Maestri, la latteria numero 10, la casa di cura Città di Parma, mi sembravan cambiati.

La gente, forse ero io, ma mi sembrava che la gente si comportasse in un modo stranissimo. C’era qualcuno che si era messo a trafficare con degli orologi, con le fasi lunari, che li vendeva, me li aveva offerti anche a me. Ce n’erano un paio, lì dentro al bar, che mi avevan chiesto se volevo entrare con loro in una società che comprava dell’oro, che io l’unica cosa che dovevo fare era dargli dei soldi, non tantissimi, ma neanche pochi, e poi convincere dell’altra gente a entrare in quella società che comprava dell’oro e dopo mi davano l’oro.

Avevo l’impressione stranissima che tutto, nel mio quartiere, in via Cenni, in piazzale Maestri, nella latteria numero 10, nel bar Riviera, avevo l’impressione che tutto fosse cambiato, anche i vestiti della gente, anche la pavimentazione, avevano asfaltato le aiuole di piazzale Maestri, anche i cartelli stradali, avevan messo un divieto di sosta lì davanti al bar, non mi sembrava più neanche la mia città, e adesso, è un’espressione un po’ forte, ma mi faceva schifo. L’Italia, nell’ottantacinque, a me, faceva orrore. Allora avevo fatto due cose: la prima, ero andato a abitar con mia nonna, in provincia, a Basilicanova, dieci chilometri a sud della città, la seconda, mi ero messo a cercare il modo di andar via.

Avevo risposto a un annuncio sul giornale, cercavan delle persone, ragionieri, disposti a lavorare anche all’estero, in Algeria, io ero andato, avevo fatto il colloquio: assunto. Bene, avevo pensato, allora andiamo. Solo che poi, avevo scoperto, loro assumermi mi assumevano, ma volevano che restassi in Italia. No, guardi, gli avevo detto io, a me l’idea di lavorar qua, in quel posto qua, con la prospettiva magari di lavorarci tutta la vita, in questo bunker, l’ufficio personale nel quale avrei dovuto lavorare era in un seminterrato, a me questa prospettiva, gli avevo detto, mi fa orrore. Cioè non gli avevo detto proprio così perché loro poi lavoravano lì, però, insomma, gli avevo detto No no. Se mi mandavate in Algeria magari andava anche bene, ma lavorare qua, no, grazie, non ci siamo capiti.

E ero tornato a abitar da mia nonna, a Basilicanova, che era un paese dove avevo cominciato a andare in estate fin da quando ero piccolo; noi avevamo la casa all’estrema periferia occidentale del paese. Era posto dove non veniva quasi mai nessuno, e era un posto dove conoscevo tutto. La strada, il campo, l’argine. L’altalena, la vigna, il portico. Le galline, i conigli, i piccioni. Se qualche sera uscivo, quando tornavo a casa, di notte, spegnevo la macchina, mi fermavo a ascoltare il rumore che faceva il torrente. Cinque minuti, poi andavo a letto. Ero tornato a abitar lì, e passavo le giornate lì fuori, sotto il portico di casa nostra, a fumar delle sigarette, ogni tanto mi veniva a trovare Nadir e stavamo lì sotto il portico, e dalla cucina veniva l’eco delle canzoni che sentiva mia nonna che eran delle canzoni, non so, Dalidà, la Zanicchi, la Cinquetti, la Berti, la Berti poco, la Berti la stimava poco, mia nonna, preferiva la Milva, ma la sua preferita, se dovessi dire, secondo me, era Dalidà. O forse la Zanicchi. Una delle due.

[Si sente qui]