Tutto tranne che il liscio (primo giorno-1)
Io e mio fratello abitavamo al sesto piano di un condominio che aveva costruito mio babbo. Era un condominio alla periferia di Parma, in una via che si chiamava, e si chiama, via Cenni.
Al pianterreno di quello stesso condominio c’era l’ufficio dell’impresa di mio babbo, dove lavorava anche mia mamma, noi ci andavamo raramente; me lo ricordavo come un posto buio, dove bisognava parlar piano, con i soffitti bassi, e quando entravi ti guardavano tutti, era imbarazzante, non ci sarei mai andato se non fosse stato per il fatto che sulla scrivania di mia mamma c’era una specie di, che cos’era, un raccoglitore, dove mettevano delle monete, gli spiccioli, e ogni tanto ci capitava, a me e a mio fratello, di tirar su delle venti lire per andare a comprare un ghiacciolo, in latteria.
Ci sono tornato, in quel posto, venticinque anni dopo, all’inizio degli anni novanta: era diventato, l’ufficio dell’impresa di mio babbo, la sede di una sezione di Rifondazione comunista. Mi era sembrato tutto diverso, la disposizione delle stanze, la luce, tutto. Lo guardavo, e non lo riconoscevo, in niente. C’erano appese delle cose, ai muri, tipo delle poesie di Pasolini, e c’era della gente che faceva fatica, a parlare, e chi li ascoltava faceva più fatica di loro.
Anche la latteria numero 10 non era un posto dove entravo volentieri. C’era troppa luce, tutto quel bianco, e come entravi ti guardavano tutti, che poi erano i lattai, non c’era quasi mai nessuno, in quella latteria lì, allora portavano ancora il latte a domicilio, però avevano i ghiaccioli, che in quegli anni lì si chiamavano bif.
Quando eravamo piccoli, a pensarci, io e mio fratello, l’unico posto dove stavamo bene era casa nostra. Siccome era opinione del nostro pediatra che i bambini, gli altri, trasmettessero le malattie, la maggior parte della nostra infanzia l’abbiam passata in casa, o sul grande terrazzo del nostro appartamento, insieme a un gatto rosso che si chiamava Pelé che a un certo momento misteriosamente è sparito anche lui.
La città, mi son scordato forse di dirlo, era Parma, e mi sembra di ricordarmi benissimo tutto, son passati quarant’anni ma quell’atmosfera lì, anche la luce, che c’era allora, a Parma, e in casa nostra, mi sembra di avercela qui, le domeniche mattina il rumore della lucidatrice, e prima di pranzo mia mamma che metteva, su un disco che era poi sempre quello; a me sembrava un amusica stranissima, perché la gente, non cantava mica, solo ogni tanto dicevano: oè.
Era un trentatré giri, e in copertina c’era una signora, una ragazza, una bella ragazza, seduta su uno di quegli sgabelli da bar, per terra c’era buttata una fisarmonica, e lei aveva una gonna a pieghe azzurra. Era tutto molto pulito, anche la fotografia, era un periodo pulito.
A me quella musica non piaceva tanto, mi sembrava troppo, non so come dire, chiassosa, io preferivo delle cose più intime, come una canzone di Riccardo Del Turco che si sentiva allora per radio che parlava di un inverno freddo in una grande città. Devo avere avuto cinque o sei anni.
[si sentequi]