Tre cose russe

sabato 13 Giugno 2009

Incollo qua sotto un pezzetto su tre cose russe tradotte quest’anno che esce oggi sul manifesto (è un po’ lunghino).

 

Tre cose russe

In un articolo del 1924, Il presente letterario, Jurij Tynjanov diceva che, ai suoi tempi, nel 1924, in Unione Sovietica, gli scrittori scrivevano senza gioia, come se facessero rotolar dei massi. Con ancora meno gioia, secondo Tinjanov, gli editori trasportavano quei massi fino alla tipografia e quegli stessi massi, poi, i lettori li guardavano con assoluta indifferenza.
I lettori, scriveva Tynjanov, si trascinano fino alle librerie e chiedono: E poi, cosa c’è? E quando gli danno questo poi, si accorgono che questo poi c’era già stato. Perché gli editori a lui contemporanei, secondo Tynjanov, non avevan fatto quasi altro, in quegli anni, che pubblicare Tarzan, il figlio di Tarzan, la moglie di Tarzan, il suo bue e il suo asino, e, con l’aiuto di Erenburg, avevano quasi convinto il lettore che questo Tarzan fosse, in sostanza, la letteratura russa.
Non ne sono sicuro, ma credo che questa idea sia venuta a Tynjanov per via della gran messe di orfani semi selvaggi diventati protagonisti dei romanzi russi degli anni 20 dopo il successo del primo romanzo di Erenburg Le incredibili avventure di Julio Juarenito e dei suoi discepoli: un gran numero di orfani semiselvaggi e semicolti che si trascinavano per l’impero sovietico; l’altra strada ugualmente trafficata, secondo Tynjanov, era un ritorno all’ottocento: un gran numero di romanzi psicologici in cui il protagonista non faceva altro che pensare pensare pensare. Ma il carico piscologico, che negli anni sessanta dell’800 era l’asse intorno al quale ruotavano i romanzi, nel 1924, secondo Tinjanov, era ormai soltanto un peso.
Ecco, quando ho cominciato a leggere l’adattamento a fumetti che Andrzej Klimowskij e Danusia Schejbal hanno fatto del Maestro e Margherita di Michail Bulgakov (Il maestro e Margherita, graphic novel, tr. it. Alberto Schiavone, Milano, Guanda 2009, pp. 127, € 16,00), a me è venuto da pensare a Tarzan e a Tynjanov.
Ma forse dipende da delle circostanze personali.
Perché l’inizio del romanzo di Bulgakov, il primo capitolo, intitolato Non conversate mai con gli sconosciuti, e ambientato in una piazzetta di Mosca chiamata Stagni Patrjarši, in un giorno di maggio, al tramonto, mentre per quella piazzetta moscovita si sparge un odore di parrucchiere, quest’inizio, dicevo, a me piace molto, e la prima volta che sono andato a Mosca sono andato a cercare proprio quella piazza di Mosca, e quando l’ho trovata ho cercato col naso l’odore di parrucchiere, e mi era sembrato perfino di averlo trovato ed era tutto così piccolo, e così sghembo, e così colorato, e così intimo, e così universale, e così uguale al romanzo di Bulgakov che uno non ci credeva.
Ecco, quando ho cominciato a leggere la graphic novel Il maestro e Margherita, e mi sono accorto che non cominciava negli stagni Patrjarši, ma che i due autori avevano raddrizzato la cronologia del romanzo, che ne avevano riordinato la fabula e l’avevano fatto iniziare con il Maestro che vinceva alla lotteria e si licenziava e si chiudeva in casa per scrivere un romanzo, ho avuto l’impressione stranissima che quello che stavo leggendo non fosse Il maestro e Margherita ma Chiedi alla polvere, di John Fante, o La fame, di Knut Hamsun, o Post Office, di Charles Bukowski. Anzi, non quelli, che sono tre libri che mi piacciono tutti, moltissimo, un’imitazione, di quelli. Che si fosse preso un modello, e che si fosse fatto di Bulgakov un epigono di quel modello.
Saranno questioni personali, ma a me sembra che se uno si dovesse fare un’idea di Bulgakov da questa graphic novel (che in quarta di copertina viene definita «Capace di appassionare e sorpendere sia chi già conosce e ama l’opera letteraria, sia chi si avvicina per la prima volta alla magia del Maestro e Margherita») avrebbe l’impressione di essere davanti a un geometra che ha copiato, un po’ maldestramente, degli architetti famosi. Invece l’architettura del Maestro e Margherita, con tutto il rispetto per Fante, per Hamsun e per Bukovski, non dipende né da Fante, né da Hamsun né da Bukowski, dipende magari da Goethe, e da Gounoud, e dai loro Faust, e l’alternanza e la disposizione dei piani e dei tempi storici, che nel romanzo è singolarissima, sembra sia stata suggerita a Bulgakov da degli spettacoli teatrali ucraini tradizionali in cui il palcoscenico era a due piani, e a pianterreno si recitava uno spettacolo normale, e al primo piano lo stesso spettacolo ma recitato da diavoli, e l’alternanza e la disposizione dei piani e dei tempi storici, l’architettura, per così dire, sono una delle cose che fanno l’incanto del romanzo di Bulgakov, insieme all’odore di parrucchiere, che nella graphic novel, purtroppo, non c’è neanche quello.
E torna in mente, appunto, Tynjanov; è come se oggi, anche quando ci danno da legger Bulgakov, i nostri editori ci voglian far leggere Tarzan, nella sua versione moderna dell’out sider che fa molta fatica ma alla fine trionfa sul mondo, che è una storia che abbiamo già letto tante di quelle volte, e va benissimo, per carità, ma non è Bulgakov, e non è questo romanzo, perché questo romanzo, come ogni romanzo, a dar retta a Balzac, lo diceva Balzac, è l’esatto contrario, cioè una Cosa inaudita, che significa Mai sentita prima, e Il maestro e Margherita è esattamente quello, e la cosa stupefacente è che lo è ogni volta che lo si rilegge.

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Un libro che è organizzato in un modo che io, perlomeno, non avevo mai visto prima, è uscito in Italia da poco, e l’ha scritto Ja. M. Sen’kin e si intitola Ferdinand, o il Viaggio da Pietorburgo al nulla (tr. it. Roberto Lanzi, Roma, Voland 2009, pp. 173, € 12,00), e sembra il resoconto di un viaggio nella regione di Pskov, tra Ludoni e Porchov, solo che, anziché raccontare quello che succede e la gente che incontra, l’autore (Sen’kin sembra sia lo pseudonimo di uno storico «molto noto in Russia»), rievoca episodi storici successi in ognuno dei villaggi che incrocia, e in alcuni di quei villaggi, come a Chredino, a memoria d’uomo, a parte il crollo di un muro, non è successo niente.
A Porchov, invece, è successo questo: «In lontananza, sul lato sinistro della strada, si scorge una gigantesca stazione per il pompaggio dell’acqua. Il 25 agosto 2004 lo stesso “Corriere di Porchov” ha pubblicato un articolo su un episodio avvenuto proprio in quella stazione. Titolo: IN SU È PIÙ FACILE CHE IN GIÙ. L’articolo recitava: “Tre abitanti del posto hanno trascorso circa tre giorni sulla sommità di un serbatoio piezometrico. Uno di loro si era arrampicato fin lassù in stato di forte ubriachezza con l’intenzione di suicidarsi lanciandosi direttamente sulla casa dell’odiata suocera; gli altri due, poco meno ubriachi ma veri amici, lo avevano seguito sulla struttura per scongiurare la disgrazia. E ci sono riusciti: hanno fermato in tempo l’amico disperato legandolo, ma poi non sono più stati in grado di scendere a terra, né con lui né da soli: la torre è troppo alta, quasi 50 metri. La scala in dotazione della squadra della Protezione civile giunta in soccorso era lunga solamente 30 metri ed è stato quindi necessario attendere tre giorni perché da Pietroburgo fosse portata una speciale gru di altezza adeguata con la quale si è poi riusciti a riportare a terra i tre poveri disgraziati. Durante il periodo di permanenza forzata in cima alla torretta, i tre amici hanno ricevuto viveri e bevande con l’ausilio di una catapulta costruita da un bravissimo artigiano membro del circolo I paladini di Dovmontov: i proiettili contenenti viveri e bottiglie d’acqua in plastica sono però riusciti ad atterrare in sicurezza solo il terzo giorno perché fino a quel momento soffiava un forte vento e i lanciatori non avevano grande esperienza. In seguito all’operazione di salvataggio, compiuta sotto gli occhi dell’intera Porchov accorsa ai piedi della torretta, i tre si sono visti presentare un conto di cinquemila rubli che dovranno versare all’erario in ottantasette anni sotto forma di trattenute sullo stipendio».

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È appena uscita in Italia la nuova traduzione di un romanzo di Gor’kij del 1908, Storia di un uomo inutile (traduzione di Francesca Biagini, prefazione di Alessandro Barbero, Utet, Torino 2009, pp. 288, € 16,00). Ecco questo romanzo io credo che non sarebbe piaciuto a Tynjanov, perché è, o almeno a me sembra, nello stesso tempo Tarzan e un romanzo psicologico. Il protagonista è un orfano, che tutti trattavano male: «Studiava con scarso profitto, arrivava a scuola pieno di paura che lo picchiassero e ne usciva maltrattato e rancoroso. Il suo terrore di essere trattato male era talmente evidente che suscitava in tutti l’irrefrenabile desiderio di prenderlo a cazzotti». Questo orfano, che pensa pensa pensa, a furia di pensare diventa poi una spia, e la storia individuale di questo Tarzan di inizio secolo finisce poi come deve finire, ma quel che colpisce, nel romanzo di Gor’kij, è che il romanzo finisce (siamo nel 1908) con la certezza che in Russia ci sarà la rivoluzione. Sì è stupefatti, come scrive Barbero nell’introduzione, dal fatto che Gor’kij, probabilmente senza saperlo, aveva già capito tutto, e viene in mente quel che diceva Brodskij: che la filosofia dello Stato, la sua etica – per non dire la sua estetica –, sono sempre «ieri». La lingua e la letteratura sono sempre «oggi», e spesso possono addirittura essere «domani».