Tre cose italiane

domenica 26 Luglio 2009

Dovrebbe uscire oggi sul manfesto (è un po’ lunghetto):

Qualche mese fa, in ottobre, a Roma, quando la trasmissione radiofonica Fahrenheit ha dedicato una puntata alla scelta del libro dell’anno del 2008, Mauro Covacich, salito tra gli ultimi a parlare del proprio romanzo Prima di sparire, aveva detto che, a sentire presentare i romanzi che erano stati presentati prima del suo, gli era sembrato che quell’anno, in Italia, tutti avessero scritto lo stesso romanzo.
Si parlava molto, allora, di autofiction, vale a dire del modo in cui le esperienze personali possono essere rielaborate e legate tra loro in una trama romanzesca e, come succede probabilmente sempre, avendo in testa, per via del parlare che se ne faceva, l’autofiction, si finiva per vedere autofiction anche dove l’autofiction probabilmente non c’era.
Di quel libro di Covacich mi è rimasta in mente, tra altre cose, la nota finale, intitolata Coi nostri nomi, dove Covacich mi sembra cercasse di spiegare, e di spiegarsi, il passaggio dalla letteratura della finzione dei suoi romanzi precedenti alla letteratura del fatto, o dell’esperienza, di quest’ultimo.
Scriveva Covacich: «I frammenti di un romanzo che sognavo di scrivere giacevano inermi sotto il peso delle cose che mi erano successe negli ultimi diciotto mesi, forse dovevo provare a raccontare quelle. Così ho cominciato. Il motto che avevo in mente era: Questi fatti esistono, queste persone esistono, io esisto. Procedevo come rispondendo a un interrogatorio, giuravo a me stesso di dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità. Ero il giudice e l’imputato».
Un percorso simile a quello di Covacich mi sembra sia stato descritto recentemente da Antonio Scurati, che ha fatto seguire al romanzo di impianto e ambientazione ottocentesca Una storia romantica, pubblicato da Bompiani nel 2007, il romanzo Il bambino che sognava la fine del mondo, pubblicato da Bompiani nel 2009; qui, il protagonista fa lo stesso mestiere che fa Scurati (professore universitario), scrive sugli stessi quotidiani sui quali scrive Scurati (La Stampa), partecipa alle stese trasmissioni televisive a cui ha partecipato Scurati (Matrix), rilascia le stesse interviste che ha rilasciato Scurati.
La conversione, se così si può dire, all’autofiction, è accompagnata, nell’ultimo Scurati, da una revisione del punto di vista teorico.
Come scrive Carla Benedetti sul sito www.ilprimoamore.it, «Tre anni fa Antonio Scurati, autore di un romanzo storico, sosteneva che l’unica cosa che oggi uno scrittore può fare è scrivere romanzi storici. Oggi, autore di un romanzo su un fatto di cronaca, sostiene che l’unica cosa che uno scrittore può fare è misurarsi col tempo della cronaca».
Per “misurarsi col tempo della cronaca”, Scurati sceglie una specie di lingua da telegiornale, che si ritrova dentro la testa praticamente di tutti i personaggi del romanzo, sia del professore («La rovina del millenario edificio del sapere umanistico assume i tratti somatici del tuo allievo che, seduto all’altro capo della scrivania, smozzica frasi perlopiù insensate, ciancica frattaglie di nozioni irrancidite, rimastica rigurgiti di conoscenze andate a male») che, per esempio, della madre di una delle bambine che si suppone siano state vittime di abusi sessuali («Quei quarantacinque minuti di attesa erano uno strazio, al punto che per sopportarli aveva perfino ripreso a fumare. Un vizio al quale aveva rinunciato da quasi sei anni oramai, dal primo giorno in cui la futura mamma aveva appreso che la sua bambina le stava crescendo nel ventre. Ma avrebbe volentieri sopportato qualsiasi sacrificio per lei, anche un cancro ai polmoni. La piccola aveva conosciuto l’inferno, eppure i medici non disperavano, con la dovuta assistenza, di poterla guarire. Sarebbe stato un lungo calvario ma ce l’avrebbero fatta. Quei dottori erano tra i migliori al mondo»).
Torna poi in mente, a leggere Il bambino che sognava la fine del mondo, un saggio di Toporov su Delitto e castigo, di Dostoevskij, in cui Toporov conta quante volte, in Delitto e castigo, compare la parola russa vdrug, che significa improvvisamente; vdrug compare 560 volte in 422 pagine. Ci sono più vdrug che pagine, nell’edizione di Delitto e castigo consultata da Toporov (può sembrare strano che Delitto e castigo abbia solo 422 pagine ma il russo è una lingua più sintetica dell’italiano, e i russi le pagine dei libri le riempiono tutte: caratteri piccoli e margini stretti).
Sarebbe, forse, interessante, contare quante volte, nel romanzo di Scurati compaiono le espressioni Da allora in avanti, Da allora in poi, Da quel momento, Da lì in avanti, Da quel momento in avanti, D’ora in avanti o D’ora in poi.
Io credo perlomeno un’ottantina, che corrispondono a una decina di punti, all’interno del romanzo, in cui il mondo, a Bergamo, che è la città in cui il romanzo è ambientato, improvvisamente (vdrug) cambia direzione, si ribalta, si rivoluziona, come se si aprisse una nuova era. Era che, però, è brevissima, perché dura poche pagine, fino al successivo Da allora in avanti, o Da allora in poi, o Da quel momento, o Da lì in avanti, o Da quel momento in avanti, o D’ora in avanti, o D’ora in poi.
Del secondo libro di cui vorrei parlare, I baroni, di Nicola Gardini, ho saputo qualche settimana fa da un professore universitario, che mi ha detto che era un bellissimo romanzo, e commovente. Quando l’ho avuto tra le mani, mi sono sorpreso che fosse pubblicato nella Serie Bianca di Feltrinelli, dove si pubblicano di solito saggi.
La quarta di copertina parla del libro come di «Una via di mezzo tra una denuncia e una confessione» e dice che «soprattutto è una storia vera».
«La storia vera – cito sempre dalla quarta di copertina – di uno dei tanti, troppi “cervelli” costretti a fuggire dall’università italiana».
A me, tutte le volte che sento parlare della fuga dei cervelli viene in mente quella volta che Dario Vergassola chiese al portiere della nazionale Buffon «Parlano tutti della fuga dei cervelli, il suo quando è scappato?»; questa espressione non deve piacere tanto neanche a Gardini se è vero che a pagina 199 dei Baroni si legge «Che cosa avrei dovuto scrivere ai giornali? Che mi ero stufato? Che ero salito sul treno sbagliato e, perciò, alla prima occasione, ne ero sceso? Che ero uno di quegli esseri mostruosi che con altrettanto mostruosa sineddoche si definiscono “cervelli in fuga”?».
A me il libro di Gardini è sembrato veramente un romanzo (l’autore lo definisce un memoir), un libro simile nella struttura a quelli di Covacich e di Scurati, le cui parti che mi sembra funzionino meglio sono quelle che corrono parallele a quelle di denuncia dello stato dell’università italiana in generale e dell’università di Palermo in particolare.
Penso per esempio al ricordo del vecchio professor Grilli, che «diversamente dalla maggior parte dei vecchi la morte non la nominava mai», e che sosteneva che la pronuncia di Montaigne fosse Montagne, «come se la i non esistesse, e affermava che per nulla al mondo si sarebbe rassegnato a commettere l’errore che la Francia intera commetteva da qualche secolo», o alle parti che riguardano la malattia, l’agonia e la morte del padre del protagonista, e in particolare al modo in cui la madre del protagonista reagisce a questa morte, a pagina 197: «Lei, invece, lo toccava, il morto. Dovetti dirle di non scomporlo, perché quello non era un organismo, ma un residuo già governato dalla chimica della decomposizione. Lei, allora, con grande risoluzione, mi chiese carta e penna e si mise a scrivere, cosa che non rientra affatto nelle normali pratiche di mia madre. Scrisse per un paio di minuti, di getto, con passione. Rilesse e mi consegnò quel che aveva scritto. Era una lettera d’amore, con cui lei gli prometteva fedeltà eterna. La piegò e gliela mise nel taschino. Questa lettera bruciò con tutto il resto una settimana dopo».
Le altre parti, le parti universitarie, più strettamente in tema, sono parti molto interessanti, a volte avvincenti, a volte stupefacenti, ma le vicende che vi sono raccontate a me sembrano tutte come lambite, e a volte affogate, in un tono di denuncia che le sovrasta e le rimpicciolisce. Sembra che l’autore, in queste parti, continuamente dica al lettore «O lettore, guarda che ti sto raccontando la verità, e fai caso al fatto che è una verità scomoda e che io ho il coraggio di dirla».
Di questo tono, che è un tono che si ritrova anche nel libro di Scurati, mi sembra non ci sia traccia nello stranissimo romanzo che Daniele Del Giudice ha recentemente pubblicato per Einaudi, Orizzonte mobile.
È un romanzo in cui Del Giudice racconta due viaggi che ha fatto all’Antartide, uno nel 1990, uno nel 2007, e nel qualche alterna parti dei propri taccuini di viaggio a parti dei «taccuini dei viaggiatori e degli scienziati che mi avevano preceduto» e in particolare di Giacomo Bove (spedizione italo-argentina del 1892) e del belga Adren De Gerlache de Gomery (spedizione promossa dalla Reale società geografica di Bruxelles tra il 1897 e il 1899).
È uno stranissimo romanzo che comincia «In un alone verde azzurrino spiritato», tra piccole bande di pinguini che vanno in direzione opposta al mare, con un’aria intenta e preoccupata, e sembrano dire «I’m late, I’m late, for a very important date».
È uno stranissimo romanzo ambientato in uno stranissimo posto dove, in pratica, non succede niente, e dove Del Giudice, praticamente, non ha niente da fare, è un po’ il contrario di quei pinguini, e passa «ore a guardare gli elefanti marini, enormi bestioni che dormono addossati l’uno all’altro sulla riva; la pelle coriacea che ricopre il grasso è macchiata di muschio e gli occhi grandissimi secernono una lacrima densa, che impedisce al vento di asciugare il liquido corneale, che cola lentamente fino ai loro baffi».
È uno stranissimo romanzo dove, prima di partire, Del Giudice va a trovare Francisco Coloane, un omone di quasi ottant’anni che gli racconta della prima volta che c’era stato lui, in Antartide, nel 1947, e «A un certo punto si trattava di uccidere una foca perché lo zoologo ne voleva il cuore, e un ufficiale di marina mi passò la pistola e mi disse “Pensaci tu”. Gli risposi che nemmeno io ce la facevo, ma insistette, e allora appoggiò la canna contro la nuca dell’animale pensando che fosse il modo più veloce. Sparai un colpo, poi un altro e un altro ancora. Al terzo colpo la foca urlante fuggì in mare. Provo ancora rimorso, – dice Coloane – ma la cosa più curiosa è che qualche anno dopo ho letto il nome di quell’ufficiale nella lista dei torturatori di Pinochet».
Stranissimo anche è l’incastro tra i diari della fine del novecento e quelli della fine dell’ottocento, e la naturalezza con cui si passa da due scienziati della Germania est che dopo la caduta del muro di Berlino non potevano tornare a casa perché «i loro passaporti non sarebbero stati accettati da nessuna frontiera», ai componenti della spedizione belga che, bloccati per mesi dal ghiaccio, nei primi giorni di gennaio del 1899 non possono più tollerare la loro inattività e su proposta del dottor Cook decidono di impiegare degli esplosivi e delle seghe speciali per provare a liberare la nave.
E stranissima è l’impressione che qui dentro tutto sia vero, anche la teoria che si possano rimorchiare e proteggere dalle correnti calde gli iceberg antartici «e poi venderli all’Africa o a altri paesi piagati dalla siccità» come acqua potabile, e che più vera di tutte sia quella parte iniziale, quella con i pinguini che dicono «I’m late, I’m late, for a very important date», parte che, si scopre alla fine, è tutta inventata.