Stamattina

venerdì 19 Dicembre 2008

Stamattina, a 50 euro, esce sul manifesto, insieme a tante altre cose, questa cosa qua (è un po’ lunga).

Previsioni per il 2009

Mi trovo qua, nella mia cucina, abitabile, a pensare che come sarà il 2009, io, a dir la verità, non lo so.
Come sarà? Boh. Non lo so.
Proviamo a far delle ipotesi.
Non so, sarebbe bello, per esempio, che l’anno prossimo si diffondesse improvvisamente, senza alcun motivo, per tutta la penisola, e anche oltre i confini, l’uso della parola Salviettone, parola che, da una ricerca privata che ho fatto in questi ultimi mesi, sembra sia relegata a un’esistenza dignitosa tra le province di Parma e di Mantova.
Sarebbe bello che l’estate del 2009 fosse l’estate del salviettone, tutti in spiaggia con il salviettone, riviste che regalan salviettoni, salviettoni formato famiglia, salviettoni usa e getta, rispettosi dell’ambiente, feste con i salviettoni (salviettone party), delle cose così.
Altro, mi dispiace, non mi viene in mente.
Forse per via che è mattina, e a me, da un po’ di tempo, la mattina, non so se succede a tutti, probabilmente no, non c’è niente che succede a tutti, però credo che succeda a tanti, o a qualcuno, che la mattina, appena ci si sveglia, ti salta addosso una cosa, non so cos’è, è qualcosa, come dei pensieri, che ti dicono «Ma smettila. Ma cosa vuoi immaginare cosa succederà nel 2009. Ma non ti vedi come sei messo? Ma non lo vedi, il disastro che c’è, guarda questo fiore, guardalo, che ha perso tutti i petali, oramai, che lui aspettava l’acqua, e lui invece no, lui aveva le previsioni per il 2009».
E allora a uno, veramente, invece di immaginarsi cosa succederà nel 2009, gli viene il dubbio che sia meglio concentrarsi sulla pazienza, sulla pazienza che ci vuole tutti i giorni, e anche quest’anno, e anche l’anno scorso, e anche adesso, per sopportarsi. La pazienza che ci vuole tutti i giorni per alzarsi, per lavarsi, per asciugarsi, per mettersi una maglietta, un paio di mutande, un paio di pantaloni, una camicia, un maglione, sedersi ancora, mettersi le calze, le scarpe, alzarsi ancora in piedi e andare in giro per il mondo, e anche nella sua cucina, che anche quello è mondo, e cambiar l’acqua ai fiori, e la sabbia al gatto, e fare delle cose, delle cose necessarie, piccole, e stare attento, tutti i giorni, tutti i minuti, sempre, anche adesso.
Che a stare attento, non lo so, l’altro giorno, per esempio, ero con mia figlia, quattro anni, che si guardava allo specchio, tossiva, e diceva, rivolta allo specchio, «Senti? Abbiamo tutti e due la tosse».
Ecco, io lì son stato attento, e adesso mi ricordo, e ricordarsi, se uno sta attento, e si ricorda, poi dopo il 2009 può andare dove vuole, mi sembra. Forse mi sbaglio, non lo so, forse semplifico, forse non vale niente, questa cosa, ma stamattina è quello che mi viene in mente.
Altro, mi dispiace, non mi viene in mente.
Se non che, come scrive Vasilij Rozanov, in un libretto, L’apocalisse del nostro tempo, «Per quanto piccino, sono anch’io un uomo fornito di 32 costole».
E male che vada, questo lo aggiungo io, me le posso contare. Quando uno sta male, o nella sua testa prevalgono quei pensieri lì, «Ma smettila», contare le costole forse può essere una soluzione, come dire, salutare. E basta che ne conti una parte, l’altra poi è uguale. Sedici, più sedici.
È un fatto di pazienza. Ci vuol pazienza.
Vacco mondo, la pazienza che ci vuole. E che c’è voluta.
C’è voluta tanta di quella pazienza, in questi ultimi anni, e non per conquistare la quarta dimensione, come pensavi quando eri quasi un ragazzo, non per imparare a volare, come voleva fare Skrjabin e con lui tanti altri dell’inizio del secolo scorso, no, per rimanere nella terza, di dimensioni, per non tornare indietro, per mantener la posizione eretta che è stata conquistata tanto di quel tempo fa che oramai non ce lo ricordiamo più, di quando si strisciava o si viveva sulla piante, con i piedi prensili, se mai li abbiamo avuti.
Io, per esempio, nell’espressione l’anno prossimo, la parola anno, quando la scrivo, delle volte, e anche poco fa, mi viene naturale scriverla con l’acca. Analfabetismo di ritorno. E sono laureato, e di mestiere scrivo i libri, anche. Ma l’indice della mia mano destra, inavvertito, incurante della mia laurea e dei miei sette esami di filologia, mi scivola sull’acca come se niente fosse, come se fosse l’indice della mia nonna autodidatta. E, a me, va anche bene. E così sarà anche l’anno prossimo, mi viene in mente. E altro, mi dispiace, non mi viene in mente.
Se non che, ma l’ho già detto, l’altro giorno, mia figlia, che ha quattro anni, ma l’ho già detto, mi ha detto Ti posso dire un segreto? E io le ho detto Sì. E lei mi ha detto una cosa che non posso dirla, perché è un segreto. E poi mi ha detto Non ridere. E io le ho detto Rido perché sono contento. Ah, ha detto lei, allora va bene.
Ecco. Nel senso che io, lì, ero attento. Che anche questo l’ho già detto. Però, in fondo, la sostanza, è quella. E non ho altro da dire. E ho già detto anche quello.
La sostanza è non avere, parlo per me, parlo per me, non faccio prediche, parlo per me e per me, la sostanza, nel 2009, ma anche quest’anno, e anche adesso, è non avere quello sguardo lì di cui parla Jannacci in una canzone dove c’è uno che rivolto al figlio gli dice Oh, son tuo padre, non son mica un mobile.
Ecco. La sostanza è guardare gli altri come se non fossero mobili, anzi, il meglio sarebbe guardare anche i mobili come se fossero gli altri.
Una volta un mio amico, che di mestiere fa il pittore, è venuto a casa mia e ha preso un portacene di ceramica bianca, vuoto, e me l’ha messo sotto il naso e mi ha detto Guarda. E era pieno di colori. E, sembrerà strano, erano colori che disegnavano vagamente, vagamente, il profilo di mio cugino, che lavora all’archivio storico di Parma. O di Piacenza. Non mi ricordo bene. Prima lavorava a Parma, poi è andato a Piacenza, adesso mi viene il dubbio che sia tornato a Parma, ma non sono sicuro.
Comunque, nella sostanza, quello che volevo dire, che delle volte, al mattino, quando ti sei alzato, e ti sei lavato e ti sei vestito e ti sei messo le calze e ti sei messo le scarpe eccetera e sei lì nel mondo, nella tua cucina, delle volte succedono delle cose, come magari che piove, tanto, e si sta bene, e c’è un silenzio, sembra che in tutto il condominio non ci sia nessuno, sembra quella poesia là di Moretti, «Piove. È mercoledì. Sono a Cesena, / ospite della mia sorella sposa, / sposa da sei, da sette mesi appena», ma senza sorella, e senza Cesena, e senza mercoledì e con dei fogli, della carta bianca da caricare sopra una stampante, e quegli sforzi lì sono bellissimi, sembra di essere un piccolo facchino, con dei pensieri bassi, a bassa voce.
E questo è tutto quello che ho da dire. Che altro, mi dispiace, non mi viene in mente,
Se non che l’altro giorno, pochi giorni fa, una settimana, c’era mia figlia, di quattro anni, che dormiva a casa mia, insieme a me, nel mio letto grande, a due piazze.
E intorno a mezzanotte ero a letto anch’io che scrivevo, col computer aperto sulle cosce e la schiena appoggiata alla testata del letto. E a un certo punto, nel sonno, mia figlia ha detto una cosa che mi è sembrata «Falliamo».
Mi sono girato, mi sono chinato verso di lei, le ho detto, vicino all’orecchio «Cosa? Falliamo?» E lei, nel sonno, ha detto «Sì, falliamo».
Che a me, adesso sbaglierò, ma io era un periodo che pensavo a quella cosa lì, a cosa succederà, nel 2009, e a me è sembrata come una specie di, non so come dire.
Meglio che non dico niente.
Che però anche lì, non è un peccato, cioè è un peccato, però, non so come dire, vogliamo vivere sempre? Non si può vivere sempre. Prendiamo i giornali, il giornale più vecchio d’Italia, che dicono che sia La gazzetta di Parma. Vogliamo somigliare alla Gazzetta di Parma?
Se volessimo somigliare alla Gazzetta di Parma, di proprietà dell’Unione industriali di Parma, la nostra speranza di vita aumenterebbe, credo. Ma vogliamo somigliare alla Gazzetta di Parma? Questo per via dei giornali, per via dei cristiani, come dicono, appunto, a Parma, per via dei cristiani, anche lì, vogliamo vivere sempre? Che poi, di immortali, forse ci sono, io non ne ho mai conosciuti.
A meno che non si voglia parlare dell’anima.
Che lì, anche quello, mi viene in mente una cosa che ha scritto un mio amico, Gianfranco Mammi, una cosa breve che si intitola Il famoso segnale, e che dice:
«Io non lo so chi ha inventato il famoso segnale SOS, che vuol dire salvate le nostre anime, in inglese – so soltanto che secondo me chi l’ha inventato doveva essere o un grande ipocrita o un grande cagone. Salvate le nostre anime? Col cazzo, era proprio il corpo che volevano farsi salvare, quei cagoni».
E è un po’ la stessa cosa, cioè la stessa cosa, è poi un’altra cosa, è un po’ un’altra cosa rispetto a quello che diceva Vasilij Rozanov nel suo L’apocalisse del nostro tempo, scritto subito dopo la rivoluzione, quella russa, quella del 1917, la rivoluzione d’ottobre, che poi è stata in novembre, dove c’è un paragrafo che si intitola La Divina Commedia che fa così:
«Una cortina di ferro cade sulla Storia Russa, stridendo, cigolando, sbattendo.
– La rappresentazione è finita.
Il pubblico si alza.
– È ora di infilare la pelliccia e di rientrare a casa.
Ci si volta.
Non ci sono più pellicce, né case».
E finisce così. È un paragrafo breve.
Allora, a pensarci, l’anno prossimo, male che vada, ci andrà male.
Che, mi rendo conto, non è una gran cosa, ma è l’unica cosa che mi viene in mente.
Anche se, da un certo punto di vista, a sfogliare ancora quel libro lì, di Rozanov, scritto meno di cento anni fa, si trova un’altra cosa, che si può anche dire, per finire.
Che ci son dei libri, che sono come i bambini, o meglio, son diversi dai bambini, però anche loro, in un certo senso, ti dicon tutto, o quasi tutto, se li vuoi sentire e se sai stare attento (parlo per me, non voglio fare prediche, parlo per me).
E in quel libro lì, di Rozanov, c’è un altro paragrafino che si intitola La radice delle cose e che fa:
«Abbiamo venerato la religione dell’infelicità. Perché stupirci se siamo così infelici?».