Spiegarsi bene

lunedì 12 Maggio 2014

Maurizio Maggiani, I figli della repubblica

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il primo romanzo di Maurizio Maggiani che ho letto è un romanzo del ’92 che si intitola Felice alla guerra e racconta, se non ricordo male, di un impiegato italiano che, quando c’è la guerra in Iraq, prende paura e si mette in aspettativa e scrive una specie di diario come se fosse in guerra anche lui. Mi era sembrato che Maggiani avesse trovato una soluzione narrativa che funzionava benissimo e ho, di quel romanzo, un ricordo che mi vien da dire grato. E quando, quasi vent’anni dopo, il 7 luglio del 2010, ho visto Maggiani per la prima volta, a Reggio Emilia, in una serata in cui si ricordavano i cinquant’anni che eran passati dal 7 luglio del 1960, che è un giorno in cui a Reggio Emilia hanno ucciso cinque operai perché facevano sciopero (governo Tambroni), quando ho sentito Maggiani parlare di quei fatti noti come i fatti di Reggio Emilia, io mi aspettavo la stessa voce persa e spaurita che mi era così piaciuta dentro quel romanzo e mi ero molto sorpreso quando Maggiani, nel suo discorso di venti minuti, buona parte delle frasi che aveva detto le aveva cominciate con: «Dovete sapere». Che io, mi ricordo, avevo pensato che, in quella piazza, lui forse non lo sapeva, ma c’erano molte persone che dei fatti di Reggio Emilia probabilmente ne sapevano più di lui e che se non s’erano alzati e non gli avevano detto «No, è lei, che deve sapere» è probabilmente perché l’avevano compatito, avevo pensato.

Così l’altro giorno, quando sono entrato in libreria e ho trovato un libro di Maggiani intitolato I figli della repubblica (un’invettiva), e ho visto che nella bandella si diceva che «Maggiani ha una predilezione per l’oralità, gli piace sentire e far sentire come il racconto nasca dalla voce, dall’ascolto, dal rapporto che si crea tra la logica dei fatti e l’eco profonda della parola che li restituisce», quando ho letto queste cose mi sono chiesto che voce aveva scelto, Maggiani, in questo libro, quella minuscola di Felice del ‘92 o quella maiuscola di Maggiani del 2010? E allora ho comprato il libro e l’ho letto. E quando ho trovato, a pagina 29, questa frase: «Che pacchia poter lasciarsi andare all’uzza del vago cogitare invece che abbruttirsi nel giramento di palle del sudore della fronte, che regalo magnifico, il libero, gratuito pensiero, speculativo o contemplativo, induttivo o deduttivo, uggioso o gagliardo che fosse. Nessun giovinotto che non fosse di nobilissima e agiatissima e coltissima casata aveva prima di noi avuto modo di pensare così tanto e per così tanto tempo, a nessuno era mai stato regalato prima di noi così tanto tempo per pensare», quando ho letto questo passo ho pensato a Bazarov, protagonista del  romanzo di Turgenev Padri e figli (1862) e a Raskol’nikov, protagonista del romanzo di Dostoevskij Delitto e castigo (1866), che non erano di nobilissima e agiatissima e coltissima casata ma, secondo me, pensavano di più, di Maggiani. E quando poi, a pagina 37, ho letto «C’erano tutti i figli dell’Italia repubblicana a intasare i portoni dei licei e degli istituti di ogni ordine e grado, ma più che altro erano i figli degli operai a ingombrare i banchi, neghittose membra strappate al miracoloso espandersi del settore industriale e manifatturiero piuttosto che alla declinante agricoltura», quando ho letto questo passo ho pensato che più che la voce di uno a cui piace «sentire e far sentire come il racconto nasca dalla voce, dall’ascolto», a me questa sembrava la prosa di un sottosegretario democristiano, a dire il vero.

E quando, a pagina 42, ho letto « Con tutto quello che avevamo cogitato e vagheggiato, l’agire ci si palesò come un’ovvia propaggine somatica, una costruzione onirica di straordinaria vividezza sensoriale. Con deliziata meraviglia scoprimmo di poterlo fare, di poter fare e disfare, senza le cavillose precauzioni che avemmo avuto modo di notare nelle lotte dei nostri padri», ho pensato che questo libro forse io non lo leggevo tutto. Solo che, il libro è 61 pagine, mancavano meno di 20 pagine, l’ho poi finito, e quando l’ho finito sono andato nella mia biblioteca a prendere il primo volume di Enten-Eller, di Kierkegaard, e ho letto: «Sposati, te ne pentirai; non sposarti, te ne pentirai anche; sposati o non sposarti, ti pentirai d’entrambe le cose; o che ti sposi, o che non ti sposi, ti penti d’entrambe le cose. Ridi delle follie del mondo, te ne pentirai; piangi su di esse, te ne pentirai anche; ridi delle follie del mondo o piangi su di esse, ti pentirai d’entrambe le cose; o che tu rida delle follie del mondo o che pianga su di esse, ti penti d’entrambe le cose. Credi a una fanciulla, te ne pentirai; non crederle, te ne pentirai anche; credi a una fanciulla o non crederle, ti pentirai d’entrambe le cose; o che tu creda a una fanciulla o che non le creda, ti pentirai d’entrambe le cose. Impiccati, te ne pentirai; non impiccarti, te ne pentirai anche; impiccati o non impiccarti, ti pentirai d’entrambe le cose; o che t’impicchi o che non t’impicchi, ti pentirai d’entrambe le cose…» (la traduzione è di Alessandro Cortese). E ho posato il libro di Kierkegaard e ho pensato che lui, secondo me, si spiega bene.

[Dovrebbe essere uscito ieri su Libero]