Società

lunedì 10 Settembre 2012

I volontari, al festival di Mantova, sono bianchi, o blu. Gli ospiti sono vestiti ognuno a modo suo, e hanno al collo un nastro, bianco, o blu, con attaccato un pass.
Il pass è grigio, e verde, e viola (poco).
A me è successo per due volte che mi abbiano fermato e mi abbian chiesto se ero del festival, e quando gli rispondevo di no, mi guardavan male, facevan segno al pass come per dire «E quello?».
La cattedrale di S. Andrea, a Mantova, dentro, è piena di ponteggi. Se uno vuol vederla, non si vede niente.
C’è stato un periodo che avevo delle braghe verdi, e una giacca e un cappello blu, e mi mettevo quasi sempre quelle, e mi fermavan spesso, dentro le stazioni, per chiedermi informazioni sui binari di partenza o sugli orari dei treni.
Le prime tre ore mi chiedo cosa son qui a fare. Ho questo pass, posso vedere tutto e è troppo.
Son qui con una bambina di sette anni, che chiameremo convenzionalmente la Battaglia, che un po’ di tempo fa, aveva visto un programma televisivo dove due esperti di moda ricevevano le segnalazioni di parenti e amici di una ragazza che si vestiva molto male e la seguivano, e andavan nella sua casa quando lei non c’era, e andavan nell’armadio e buttavano nel bidone della spazzatura tutti i suoi vestiti e la portavano a comprarne dei nuovi e la portavano dal parrucchiere e in pelletteria e le creavano un’immagine nuova, se ho capito bene. Ecco, la Battaglia aveva chiesto a sua mamma «Mamma, non possiamo telefonare per il babbo?». Ecco. Il babbo sono io.
Intanto devo fare un’intervista, a Fahrenheit.
Dietro S. Andrea c’è un muro, ci sono tipo venti cicche, tiramolle usate, o come le chiamate, gomme, appiccicate in fila, faccio una foto alla Battaglia che le guarda.
Il posto dove fanno Fahrenheit, la trasmissione, quest’anno è cambiato, per via del terremoto, non è più piazza Broletto, che non è più agibile, è in Piazza Leon Battista Alberti.
C’è sempre molto pubblico, e venerdì, nel pomeriggio, dalla porta di una chiesa che dà sulla piazza escono, in fila indiana, gli invitati di un matrimonio, con la sposa, lo sposo, i testimoni e tutti, vestiti bene e tutto, e è una cerimonia minima, rispetto a Fahrenheit, e al festival, degli sposi piccoli, delle foto piccole, dei piccoli bouquet.
Poi mi decido e vado a veder Bichsel, un signore svizzero, con un giubbotto di pelle nero, svizzero, e un cappello di pelle nero, svizzero, e un po’ tedesco, anche.
C’è un signore, davanti a me, che ha una cicatrice sul gomito. Ha le scarpe con le stringhe rosse e la sua vicina allunga un braccio sulla sua schiena e lo accarezza, sulla maglietta verde.
E quando arriva il momento delle domande c’è un signore, si chiama Paolo, con una maglia rossa, che dice che è emozionato, a poter parlare a Bichsel, e non ha una domanda, ma vuole dire che il modo che Bichsel ha di leggere i libri, a lui ricorda il modo che aveva suo nonno di fumare, che fumava senza mai accendere un cerino, che con il mozzicone di una sigaretta se ne accendeva un’altra. E che lui, dice quel signore, Bichsel, quando parla di lettura lega la lettura a due elementi contraddittori, la noia, perché si legge per noia, e l’entusiasmo, perché ci si entusiasma, dice quel lettore, e Bichsel dice «Molto bello». E poi una signora dice che, avendo i letti libri, di Bichsel, lei si è accorta che a Bichsel piacciono due cose, bere, e leggere, e gli chiede se gli piace bere da solo, e cosa pensa della lettura condivisa, della lettura ad alta voce, per esempio.
E Bichsel dice che non gli piace, bere da solo, e che lo fa solo quando è strettamente necessario, e che succede spesso, che sia strettamente necessario, e che per la lettura, invece, la lettura è una pratica solitaria, ma se gli chiedessero che libro porterebbe su un’isola deserta, lui non porterebbe nessun libro, perché lo leggerebbe i primi due giorni e poi non lo leggerebbe più, perché le lettura, è vero, è una pratica solitaria, ma ha bisogna, intorno, di una società.
E io pensato “Ecco”.
E poi di sera, a cena, in piazza delle Erbe, insieme alla Battaglia che ha un vestito color topo, bellissimo, secondo me, con quella luce delle otto e mezzo di sera, a Mantova, mi è venuto da pensare a quel passo di Cronosisma, di Vonnegut, quello che dice «Mio zio Alex Vonnegut, un assicuratore che aveva studiato ad Harvard e che abitava al 5033 di North Pennsylvania Street, mi insegnò una cosa molto importante. Disse che quando le cose vanno davvero bene dovremmo fare in modo di accorgecene.
Non parlava di grandi trionfi bensì di semplici epifanie: bere una limonata all’ombra in un pomeriggio afoso, sentire il profumo di una panetteria vicina, pescare e fregarsene se si pesca qualcosa o no, ascoltare qualcuno che suona bene il piano nell’appartamento accanto al nostro.
Zio Alex mi suggeriva, in tali occasioni, di dire a voce alta: ‘Se non è bello questo, cosa mai lo è?’»
E dopo finivamo di cenare e dopo Kafka, e storia della musica, e desiderio, e Ariosto, e molta gente che spiega, molta, e gente che racconta, e io preferisco quella che racconta.

[uscito ieri su Libero]