Silenzio

giovedì 6 Novembre 2008


Due anni fa, sempre sul manifesto, in una rubrica che si chiamava, se non ricordo male, Gli introvabili, è uscito un pezzo sul libro di Daniele Benati Silenzio in Emilia.
Il pezzo era questo:

Una volta ero in macchina con un mio amico, dovevamo andare in un posto in Piemonte dove c’era una festa. Eravam partiti la mattina presto e avevam cominciato a parlare, quando è stato il momento di uscire dall’autostrada, stavamo parlando, abbiamo passato l’uscita. Siamo usciti l’uscita dopo, e per andare in quel posto dove dovevamo andare, nel Monferrato, abbiamo dovuto fare una strada che non conoscevamo. Ci eravamo persi. Quel pezzo di strada lì, un’ora, a cercare la strada, a controllare i nomi dei paesi sulla cartina, a stupirci delle piazze deserte all’ora di pranzo, a vedere le insegne dei bar che sembravan le stesse di quaranta anni prima, è stato un momento indimenticabile, che se ci ripenso ne ritrovo il carattere, preciso com’era. Questa cosa mi è venuta in mente rileggendo Silenzio in Emilia, di Daniele Benati, un po’ perché in macchina con me quel giorno lì c’era Daniele Benati, un po’ perché Silenzio in Emilia è un libro dove i protagonisti degli undici racconti (o capitoli) che lo compongono, continuamente si perdono, e sempre, nel libro, per tutto il libro, c’è quell’incanto di quando sei perso, quella tensione che fa sì che ogni cosa che vedi diventa importante.
È forse per questo, o forse no, ma il fatto è che le immagini che saltano fuori da questa raccolta di racconti (o da questo romanzo), hanno una grande potenza, son memorabili. Come quando Franco Badodi, un vecchio che è morto ma non sa di essere morto, passato il cavalcavia dell’autostrada in direzione Bocciofila di San Martino arriva in un campo dove in mezzo all’erba c’era un maiale sdraiato che lo guardava, e stava lì, «coi suoi bei zamponi per aria, che mi sembrava quasi un amico o un essere spirituale». O quando a Saverio Ascari, un poeta di Canossa che è morto ma non si rassegna a essere morto, i clienti di un bar di San Polo «gli pagavano delle fette di pizza solo se prometteva di mangiarle bollenti». O quando Soncini, il macellaio di Castellazzo che è morto ma non se n’è accorto, «gli è venuta la passione di vestirsi in modo elegante e delle volte andava in giro con due giacche e tre o quattro cravatte». O quando Fausto Cicala, «che lo avevano licenziato dal suo ufficio e il giorno dopo ha voluto tornare a lavorare lo stesso», si lamenta di Mingazzini che era andato a dire al lavoro «che beveva dei grappini, Cicala. E che dopo averli bevuti diceva delle frasi contro la piccola industria». O quando Vittorio Cirano, un impresario di Roncadella che era morto ma non si era accorto di essere morto, «gli piaceva tanto il suo nome che tutte le volte che lo vedeva scritto da qualche parte era capace di star lì mezz’ora a guardarlo». E aveva fatto montare un’insegna luminosa col suo nome che era così luminosa che «delle volte, di notte, sembrava quasi che fosse scoppiato un incendio dalla parti di Rubiera, per chi non era del posto e veniva in macchina dallo stradone di Bagno». O quando il figlio di Socetti, un ragazzo che studiava a Reggio Emilia e abitava a Masone (otto chilometri) «tutte le volte che prendeva quattro in un compito /…/ tornava a casa da scuola a piedi».
Resta da dire che il libro, pubblicato nel 1997 da Feltrinelli nella collana I Narratori, è esaurito, non ristampato e quindi introvabile, e da augurarsi che ricompaia presto in qualche forma, e forse non c’entra, ma viene in mente l’epigrafe, di Silenzio in Emilia. «Signore, se ci siete / Fate che la mia anima, se ce l’ho / Vada in Paradiso, se c’è».