Si buttava via niente

domenica 20 Ottobre 2013

design del popolo

 

 

 

 

 

 

 

Lo spettacolo di Edoardo Ribatto Io sono il proiettile, che va in scena dal 18 al 20 ottobre al teatro della Tosse di Genova e dal 3 all’8 dicembre all’Elfo Puccini di Milano, parla di un periodo, gli anni sessanta, e di un posto, la Russia sovietica, abbastanza diversi dal nostro periodo e dai posti a cui siamo abituati. C’è un libro, pubblicato da Isbn, e costruito dall’artista Vladimir Archipov, che si intitola Design del popolo (sottotitolo 220 invenzioni della Russia post-sovietica), dove Archipov mette in fila una serie di fotografie di oggetti artigianali fatti con gli scarti di altri oggetti, per esempio uno zerbino fatto di tappi a corona, o delle antenne fatte con delle forchette, o una pala fatta con un cartello stradale, e sotto ogni fotografia c’è il racconto dell’inventore, se così si può dire, cioè della persona che ha costruito quell’oggetto, e uno di questi inventori è un signore che racconta che si erano rotti gli stivali di sua figlia, e che le suole erano ridotte talmente male che non si potevano più riparare, e che col cuoio degli stivali, avevano un cane, avevano fatto una museruola per il cane, che non ne aveva bisogno, era un cane buonissimo, ma era un così bel cuoio, era un peccato buttarlo via. Ecco, questa cosa, che non si buttava via niente (rifiuti zero, mi vien da pensare), non funzionava solo con gli oggetti, funzionava anche con le parole.
Cioè uno doveva stare attentissimo a tutto quel che diceva perché quel che diceva, il cuoio delle sue parole, se così si può dire, chissà in cosa si sarebbe potuto trasformare; magari, come è successo a Julij Daniel’ e a Andrej Sinjavskij nel 1966, in una condanna ai lavori forzati. Due anni prima, la rieducazione dei lavori forzati era toccata a Iosif Brodskij, che era stato condannato per il fatto di scrivere poesie senza essere iscritto all’associazione dei poeti («Chi ha stabilito che lei era una poeta? – gli avevano chiesto al processo – Chi l’ha classificata tra i poeti?»), e Brodskij è l’esempio del fatto che i campi di lavoro sovietici funzionavano, l’han rieducato benissimo, se è vero che poi, nel 1987, ha preso il Nobel per la letteratura. Quell’atmosfera lì, quella vita lì dove devi stare attento, dove quello che fai la mattina è importante, non è indifferente, dove quello che dici è importante, non è indifferente, dove perfino quello che pensi, è importante, non è indifferente, e dove non è detto che quando ti va male ti vada male, e che quando ti va bene ti vada bene, quella vita lì dove non si butta via niente, e non è detto che sia un bene, è ricostruita da Ribatto  con tre microfoni e uno strumento per alterare le voci che si chiama vocoder e che gli permette di impersonare i dodici personaggi che popolano questo radiodramma per voce sola e ci portano, per un’ora, in Unione Sovietica, che era un posto che io, prima di andarci, quando mi è capitato di andarci, ero convinto che in Occidente fossimo liberi e che là, in Unione Sovietica, non lo fossero, e quando poi sono tornato avevo le idee molto più confuse e continuamente mi tornava in mente una frase di Brodskij che potrebbe esser l’epigrafe del lavoro di Ribatto: «Comunque, se vogliamo avere una parte più importante, la parte dell’uomo libero, allora dobbiamo essere capaci di accettare, o almeno di imitare, il modo in cui un uomo libero è sconfitto. Un uomo libero, – scrive Brodskij, – quando è sconfitto, non dà la colpa a nessuno».

 

[Uscito il 16 ottobre su Vanity Fair]