Se avessero potuto parlare

venerdì 18 Marzo 2011

Una cosa stranissima, della nostra idea su di noi, e quando dico noi intendo noi italiani, con tutta l’approssimazione che ci può essere dentro quel noi, una cosa stranissima, mi sembra, è che quando parliamo di noi stessi noi di solito ne parliamo malissimo, quando uno straniero si azzarda a parlar male di noi ci viene da contraddirlo e ci monta anche un po’ di nervoso.
Io, per esempio, in questi giorni sto provando a scrivere un discorso che mi hanno chiesto di fare in occasione delle celebrazioni dell’unità d’Italia, e, non sapendo praticamente niente del risorgimento, ho provato a ragionare sull’unità linguistica, e mi son trovato a scrivere che in relazione alla particolarità della storia della lingua italiana, che è stata, per la maggior parte degli italiani, prima una lingua scritta e poi una lingua parlata, cioè, sostanzialmente, una lingua imparata a scuola, tanto che Settembrini, intorno al 1870, cioè un decennio dopo l’unità d’Italia, finiva le sue lezioni sulla letteratura italiana augurandosi che l’italiano diventasse una lingua viva, intendendo con ciò che era ancora una lingua morta, una lingua libresca, e tanto che mia nonna, che aveva fatto la seconda elementare, quando sentiva un discorso in italiano che le risultava complicato perché c’erano delle parole difficili di quello che aveva fatto il discorso diceva che parlava come un libro stampato, in relazione a questa particolarità, dicevo, mi son trovato a scrivere che ancora oggi, 150 anni dopo l’unità d’Italia, trovare in Italia dei libri stampati dove si parli una lingua viva, concreta, simile alla lingua che sentiamo parlare per strada, non è facilissimo.
Poi però, quando nell’introduzione al libro Il risorgimento e l’unificazione dell’Italia di Derek Beals e Eugenio F. Biagini (due docenti di storia di Cambridge) ho trovato scritto che «L’italiano sembra spesso una lingua particolarmente adatta alla retorica», a me è venuto da pensare che, se da un lato questa cosa forse è anche vera, da un altro lato l’italiano che parlavano al bar Riviera, per esempio, un bar della periferia di Parma dove ho passato la mia giovinezza e dove la frase che si sentiva dire più spesso era “Cat vena un cancòr”, ecco quell’italiano lì, che poi era dialetto, ma ci siamo capiti, e poi si può anche tradurre in italiano: “Che ti vengo a un canchero”, quell’italiano lì, dicevo, a me non mi sembrava mica tanto retorico, solo che il problema è che quelle forme italiane lì, quei discorsi lì non retorici, che sentiamo fare continuamente per strada, per una qualche ragione non entran nei libri stampati e allora, chi magari abita in Inghilterra e l’Italia la studia attraverso i libri stampati, si fa magari l’idea che l’italiano sia «spesso una lingua particolarmente adatta alla retorica», sarà bello l’inglese, ho pensato.
E non c’era invece nessun motivo di farsi venire il nervoso, perché Beals e Biagini, dal loro punto di vista, dicevano la stessa cosa che pensavo io, anche se, lavorando su documenti risorgimentali, non consideravano il fatto che da allora la lingua italiana è cambiata e sta cambiando ancora molto rapidamente e che questa forbice tra l’italiano scritto e quello parlato si va chiudendo sempre di più.
Un paio di anni fa ero a casa di mia mamma, a Basilicanova, in provincia di Parma, e ho visto in sala, sulla credenza, che c’era una di quelle scatole di latta grosse, che si usano per i biscotti, ed era piena di bottoni, e io, per prendere in giro mia mamma, non so perché ogni tanto io a mia mamma mi viene da prenderla in giro, quella volta lì mi ricordo le ho detto «Hai un po’ di bottoni?».
E lei mi ha guardato mi ha detto «C’è tutta la storia della nostra famiglia, in quella scatola lì». E, a pensarci, era vero: tutte le camicie le giacche i cappotti i pantaloni le gonne di quattro generazioni erano dentro quella scatola lì e se avessero potuto parlare avrebbero raccontato tutta la storia della nostra famiglia.
Luigi Settembrini, quello di prima, nel 1892, nella sua autobiografia Ricordanze della mia vita, scriveva che «quando un popolo ha perduto patria e libertà e va disperso pel mondo, la lingua gli tiene luogo di patria e di tutto… Sapete che così avvenne in Italia, e che la prima cosa che volemmo quando ci risentimmo italiani dopo tre secoli di servitù, fu la nostra lingua comune, che Dante creava, il Machiavelli scriveva, il Ferruccio parlava. Sapete infine che parecchi valenti uomini si dettero a ristorare lo studio della lingua, e fecero opera altamente civile, perché la lingua per noi fu ricordanza di grandezza di sapienza di libertà, e quegli studi non furono moda letteraria, come ancora credono gli sciocchi, ma prima manifestazione del sentimento nazionale…».
A me sembra che la costruzione di questa lingua comune, anche se forse non è ancora del tutto compiuta, sia oggi piuttosto vicina, e che quello che forse qualche decennio fa si faceva fatica a immaginare, cioè l’uso, anche nei libri, di una lingua viva e concreta, che fa sì che le cose si possano toccare, che fa sì che i bottoni, non dei bottoni di fantasia, i nostri bottoni, quelli che sono sui comò delle nostre mamme, prendano vita e ci raccontino tutta la storia delle nostre famiglie, oggi sia una delle possibili strade che abbiamo davanti.
Ho pensato a questa cosa recentemente quando ho visto un documentario sulle mondine di Novi di Modena, un documentario di Andrea Zambelli intitolato Di madre in figlia dove a un certo punto parlava un imprenditore del biellese, o di quei posti lì dove andavano le mondine emiliane sessanta anni fa a far la stagione, e diceva che all’epoca, le mondine, la maggior parte eran giovani, e lui le prendeva, le più carine, una per sera, le caricava sulla macchina e le portava a Biella che c’erano dei dancing, dei night club, «non era mica una brutta vita», diceva quell’imprenditore lì del biellese. E dopo, subito dopo, parlava una mondina e diceva che lei, la sua giovinezza, non ce l’aveva avuta, che per lei la giovinezza era stata solo lavoro, e che coi primi soldi che le avevano dato in risaia lei si era comprata una seggiola e una forchetta, perché almeno così quando si sposava avrebbe avuto qualcosa anche lei, e quella seggiola e quella forchetta lì lei ce le aveva ancora.
Ecco. Forse la lingua che deve venire, la lingua che salterà fuori nei prossimi anni, ammesso che sia qualcosa di coeso e coerente, facciamo l’ipotesi, io ho l’impressione che una delle scelte possibili si giochi tra queste due ipotesi, una bella lingua e una bella Italia allegra e cosmopolita da dancing e da night club, o un’Italia povera e viva e una lingua viva e concreta dove ciascuno abbia una seggiola e una forchetta.
Mia nonna, quando avevo tipo diciotto anni, mi ripeteva spesso «Io ormai il mio l’ho fatto, adesso tocca a voi». «Tocca a noi a fare cosa?» mi chiedevo. Ecco, adesso, che di anni ne ho quarantotto, mi sembra di cominciare a capire.

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