Ridicolo
Io sono un uomo ridicolo. Adesso poi dicono che sono un matto. Sarebbe come una specie di promozione, se non fosse che io, per loro, resto sempre ridicolo, come prima.
Ma adesso oramai non mi arrabbio più, adesso voglio bene a tutti, anche quando ridono di me, anzi, quando ridono di me, chissà perché, gli voglio bene ancora di più. Riderei anch’io insieme a loro, non di me, ma solo perché gli voglio bene, se non fosse, per me, così triste, guardarli. Triste perché loro non sanno la verità, invece io la so.
Oh, com’è triste esser l’unico che sa la verità! Ma loro questo non lo capiscono. No, non lo capiscono.
Prima invece, mi rattristava molto il fatto di sembrare ridicolo.
Non di sembrarlo, di esserlo.
Sono sempre stato ridicolo, e ne son consapevole forse fin dalla nascita. Forse già a sette anni io sapevo di esser ridicolo. Poi ho studiato, a scuola, e poi all’università e che cosa è successo? Che più cose studiavo, più mi rendevo conto di esser ridicolo. Tanto che, per me, tutta la scienza universitaria è stato come se fosse esistita, alla fine, per dimostrarmi e chiarirmi, quanto più mi ci sprofondavo, che ero ridicolo. E così come nella scienza succedeva nella vita.
Ogni anno che passava cresceva e si rafforzava in me la coscienza stessa del mio aspetto ridicolo da tutti i punti di vista.
Di me ridevano tutti, sempre.
Ma nessuno di loro sapeva, nessuno aveva indovinato che, se c’era qualcuno, al mondo, che più di ogni altro era consapevole del fatto che io ero ridicolo, quel qualcuno ero io stesso, e questa era l’offesa più grande di tutte, per me, che loro non lo sapessero; ma la colpa era mia: sono sempre stato così orgoglioso, che per niente al mondo l’avrei confessato a qualcuno.
Questo orgoglio è cresciuto col passare degli anni, e se fosse successo che io, anche a uno solo, avessi confessato di sentirmi ridicolo, mi sembra che allora, quella sera stessa, mi sarei fatto saltar le cervella con una pistolettata.
[Fedor Michajlovič Dostoevskij, Il sogno di un uomo ridicolo, 1877]