Quello che serve

sabato 4 Giugno 2011

Il mio caro amico paterno Max, dopo una notte passata a gozzovigliare a Berlino, mi si piazzò davanti e mi spiegò come funziona la vita. Qui vorrei riportare il suo discorso, ma ricordo soltanto che è stato un discorso commovente e grandioso, un grandioso atto unico, e ricordo anche quanto il suo discorso mi avesse colpito. Elencava tutto quello che avrei dovuto avere, oltre a quello che già avevo, per questa vita: una fidanzata, per esempio, magari una tessitrice – sì, aveva detto proprio così, me lo ricordo bene – e poi anche una macchina da scrivere ultra leggera per i viaggi, così Max era andato nell’altra stanza e aveva preso una macchina da scrivere e me la voleva assolutamente regalare. Dopo di che era andato a prendere una cartelletta e mi voleva regalare anche quella, e ben presto era arrivato con le cose più improbabili, penne stilografiche, seggiolini pieghevoli, termos, una torcia di ottima qualità, un atlante astronomico, e mi voleva regalare ogni cosa, e altro ancora. E per tutto quel tempo, per ore intere, io me ne ero rimasto lì, in silenzio, e avevo ascoltato il suo discorso con lo stupore che avrei provato guardando lo spettacolo di un grande attore o di un pagliaccio. Ma i regali no, quelli li rifiutavo con cortesia e loquacità, dicevo di avercela già una macchina da scrivere uguale a quella, anche un termos, e che l’atlante astronomico me l’aveva già regalato lui, anni prima, inoltre, che tutte quelle cose non me le potevo portare dietro, in aereo, e in Svizzera. Poi mi aveva offerto una casa di vacanza in Engadina, aveva raccontato di un caro amico in Portogallo, che mi avrebbe potuto ospitare, era andato a prendere addirittura una cartina di Lisbona, e mi aveva segnato minuziosamente il percorso che avrei dovuto seguire il primo giorno per farmi un’idea della città, mi aveva poi spiegato dove avrei dovuto bere il caffè e in quale bar con i tavolini che davano sulla strada, avrei potuto bere, più tardi, un bicchiere di rosso.
E poi, il bagliore del nuovo giorno entrava ormai dalla finestra, era tornato nell’altra stanza, era rimasto di là per molto tempo e cominciavo a pensare che fosse andato a dormire, ma alla fine era tornato con una piccola borsa di pelle molto pregiata, l’aveva aperta e mi aveva mostrato tutte le tasche interne, una scomparto per due camice, uno per la carta e per la macchina da scrivere, una tasca per il passaporto e altri documenti e mi aveva detto: «È questa la borsa che ti serve, con questa puoi viaggiare in aereo e andare a New York senza bagagli. Però non te la posso dare, questa serve a me».

[Peter Bichsel, Quando sapevamo aspettare, traduzione di Anna Allenbach, Bologna, comma 22 2011, pp. 73-74]