Quel che non c’era
Qualche giorno fa, alla libreria Ambasciatori di Bologna, ho preso, dalla cima di una pila di libri che sarà stata alta un metro e venti, una copia dell’ultimo romanzo di Niccolò Ammaniti, Io e te (Einaudi stile libero big, 118 pagg., 10 euro), e intanto che la prendevo pensavo «Vediamo nelle prime tre pagine che paragoni ha inventato, questa volta».
Pensavo così perché negli ultimi due romanzi di Ammaniti, Come Dio comanda e Che la festa cominci, avevo trovato un uso della lingua, non so come dire, sopra le righe, con riferimenti continui a immagini improbabili o esotiche non so quanto necessarie: c’era un uomo che si lamentava come se gli stessero facendo una rettoscopia; una donna che come un capretto, un Bambi o quel diavolo che era, cominciava ad agitarsi, a urlare, a dimenarsi, a farfugliare; una signora alta e affilata come una mantide religiosa; un’altra piccola e verde come un goblin, che si trascinava dietro un quadrupede che sembrava un diavolo della Tasmania; c’era una scimmia da laboratorio sotto oppio; c’era una testuggine a cui avevano sfilato il guscio e infilato una tunica bianca; una principessa berbera il giorno dell’incoronazione; un profugo ugandese; una sanguisuga infetta; un pigmeo con il verme solitario eccetera eccetera.
Poi l’altro giorno, nella libreria Ambasciatori di Bologna, siccome nelle prime tre pagine non avevo trovato nessun uomo che si lamentava come se gli stessero facendo una rettoscopia, e nessun quadrupede che sembrava un diavolo della Tasmania, ho comprato il libro, e, arrivato a casa, mi son a leggerlo e due ore dopo l’avevo finito e ci avevo trovato dentro una sobrietà, rispetto ai libri precedenti, e una felicità, mi viene da dire, nella tessitura e nello scioglimento della trama, che mi avevano ricordato Ti prendo e ti porto via, romanzo di Ammaniti uscito nel 1999 e che, per quanto possa essere interessante, è il suo romanzo che, ad oggi, ho letto più volentieri, e credo sia il romanzo che mi ha indotto, per quanto possa essere interessante, a leggere anche i successivi.
Devo dire, che, per quanto possa essere interessante, non è questo il tipo di letteratura che leggo abitualmente: sono libri per i quali il piacere della lettura, per me, consiste prevalentemente nel vedere come vanno a finire, sono libri che si divorano, e nei quali, se a un certo punto, mettiamo a metà, circa, a pagina 54, per esempio, compare un personaggio che si chiama Olivia, uno può scommettere che quella Olivia è il personaggio centrale della vicenda, ma, fatta questa premessa, poco interessante, probabilmente, mi viene da dire che, da questo punto di vista, il romanzo di Ammaniti funziona perfettamente, e benché a un certo punto mi fosse sembrato che ci fosse una svolta convenzionale (quando Ammaniti insiste sulla diversità del protagonista, Lorenzo, e sulla sua ansia di farsi accettare che lo porta a comportarsi esattamente come gli altri, a me era venuto in mente Il conformista, di Alberto Moravia, e un mio amico che insegnava letteratura italiana negli Stati Uniti e che chiedeva ai suoi studenti americani di leggere Il conformista e di contare quante volte, in quel romanzo, Moravia usasse la parola «normale», e l’esame di quel corso consisteva in due domande, la prima era: «Quante volte nel Conformista Moravia usa la parola “normale”?», la seconda: «Vi sembra bravo, uno scrittore che usa tante volte in un romanzo la parola normale?», e chi rispondeva di no alla seconda domanda veniva promosso), benché a un certo punto, dicevo, mi fosse sembrato che il romanzo stesse virando verso un’analisi psicologica un po’ convenzionale dell’alterità, Ammaniti invece poi cambia strada, rispetto a Moravia, si mette a raccontare una storia e non si preoccupa di rispondere a tutte le domande che ha suscitato e il lettore, vale a dire io, come lettore, quando ha chiuso il libro, per quanto possa essere interessante, era contento, e grato, per quello che c’era, la storia, e ancora di più per quel che non c’era.
[Dovrebbe essere uscito su Libero]