Quando porto bagagli

lunedì 18 Ottobre 2010

«Perché avete scelto il vostro mestiere?»: si tratta di un’inchiesta condotta su base mondiale dall’Unesco, i cui risultati non sono stati ancora resi pubblci ma di cui siamo in grado di offrire in anteprima un minimo campionario. Fa impressione la totale concordanza tra le risposte di quanti esercitano le più diverse professioni e mestieri e le risposte date dagli scrittori all’inchiesta di Libération «Perché scrivete?» della quale il lettore italiano conosce l’ampia scelta pubblicata su Reporter (13 e 23 aprile). Del resto, proprio il commento di Reporter sembrava anticpiare il problema quando parla di «risposte che potrebbe dare ciascuno di noi» e acutamente conclude: «È questo lo spirito del tempo: siamo tutti scrittori, o potremmo esserlo. Non lo siamo per un pelo».

Jose Benguela, facchino (Angola): «Ho cominciato a fare il facchino molto giovane, perché aveva la sensazione che qualcosa di essenziale mi mancasse. Assolutamente. Voglio sapere che cos’è. Dunque, faccio il facchino. Non capisco profondamente la realtà se non nell’atto di portare bagagli. E solo in quell’atto mi scopro. E in esso mi nascondo. Quando porto bagagli, non sento alcuna mancanza: etica, politica, affettiva. Niente. Al di fuori del facchinaggio, sono un perenne frustrato. Faccio il facchino per sentirmi vivo. Per vivere.»

Friedrich Zeller, Camionista (Svizzera). «La questione è: perché ho scelto un lavoro così duro? Perché è una passione. Quando guido il mio camion, sono davanti a una catastrofe. Ho sempre l’impressione di essere un dilettante, di non saper guidare, di non conoscere il percorso, la destinazione, i segnali stradali, di essere davanti al nulla. Ma è una passione.»

Isaac Samuelson, rappresentante di commercio (Usa): «Io faccio il rappresentante di commercio per la stessa ragione per cui respiro; perché, se non lo facessi, morirei».

Francesco Vitali, assessore (Italia). «Bisogna accettare di non sapere del tutto perché si fa l’assessore. C’è una linea d’ombra oltre la quale non si può andare…»

[Piergiorgio Bellocchio, Alfonso Berardinelli, Diario, cit., p. 53]