Piantagrane
Quando ero piccolo pensavo che il “piantagrane” fosse un attrezzo. Una specie di piccola trivella cicciotta e filettata, lunga una ventina di centimetri con una impugnatura verde di forma ovale (non so perché ma io l’impugnatura me la immaginavo verde). La trivella aveva grossomodo la forma e le proporzioni di un cono gelato capovolto, leggermente più grande di un cono gelato però molto più robusta, in metallo, con delle alette filettate e taglienti, con dei puntini tipo quelli che ci sono sulla grattugia del formaggio e con questa impugnatura ovale che riempiva il palmo di una mano come certe maniglie di ottone che ci sono in certe case del centro. Nel mio condominio maniglie ovali, non ne avevamo.
Non riuscivo a immaginare tecnicamente il funzionamento esatto della “piantagrane” ma immaginavo che fosse necessario appoggiarla per terra, fare pressione sull’impugnatura caricandoci bene sopra tutto il peso del corpo e poi lasciarla lavorare. Poi faceva tutto da sola. Se qualcuno mi avesse chiesto se ne avevo mai vista una di trivella piantagrane avrei quasi certamente risposto di sì, che l’avevo vista, tanto ero convinto. Ero sicuro di averne vista una tra gli attrezzi da lavoro di mio nonno. Pianta da pianta, grane da grane. Era chiaro che il piantagrane era una cosa che serviva per piantare qualcos’altro, probabilmente le grane come diceva la parola. Che quelle, sinceramente, non avevo capito bene che cosa fossero.
[Emilio Previtali, da Qualcosa n. 7, esce oggi in libreria]