Per ciò che riguarda i miei rapporti con i nazisti

venerdì 4 Agosto 2017

Questo è l’unico dei miei racconti di cui conosca la morale. Non è una morale meravigliosa, non credo; si dà soltanto il caso ch’io sappia di quale morale si tratti: noi siamo quel che facciamo finta di essere, sicché dobbiamo stare molto attenti a quel che facciamo finta di essere.
La mia esperienza personale con i traffici e gli imbrogli dei nazisti è stato molto limitata. A Indianapolis, la mia città natale, c’era, negli anni Trenta, qualche spregevole e chiassoso fascista d’origine americana; mi ricordo che qualcuno mi passò sottobanco una copia del Protocollo degli anziani di Sion, che avrebbe dovuto essere il piano segreto degli ebrei per la conquista del mondo. E mi ricordo di aver riso alle spalle di una mia zia che per sposare un tedesco tedesco dovette scrivere a Indianapolis per ottenere testimonianza che nelle sue vene non scorreva sangue ebraico. Il sindaco di Indianapolis la conosceva fin dai tempi del liceo e della scuola di ballo e si divertì a riempire di nastri e di sigilli ufficiali i documenti richiesti dai tedeschi, tanto che finirono per sembrare dei trattati di pace del diciottesimo secolo.
Dopo un po’ venne la guerra e io mi ci trovai dentro; fui preso prigioniero ed ebbi modo di vedere un po’ di Germania, dall’interno; intanto la guerra continuava. Ero soldato semplice, esploratore di battaglione, e secondo la convenzione di Ginevra dovevo lavorare per il mantenimento, il che fu un bene, non un male. Non dovetti starmene sempre chiuso in qualche prigione isolata in mezzo alla campagna. Poeti andare in una città, Dresda, e vedere la gente e quel che faceva.
Nella mia squadra di lavoro eravamo circa un centinaio di persone; fummo destinati a una fabbrica che produceva uno sciroppo di malto arricchito di vitamine, per donne incinte. Sapeva di miele diluito mischiato al fumo del noce americano. Era buono. Vorrei averne un po’ adesso. La città era graziosa, tutta ricamata, come Parigi, e la guerra non l’aveva neppure sfiorata. Si trattava probabilmente di una città «aperta», che non poteva essere attaccata, visto che non ospitava né centri di raccolta delle truppe né industrie militari.
Tuttavia la notte del 13 febbraio del 1945, circa ventun anni fa, potenti esplosivi furono sganciati su Dresda da apparecchi inglesi e americani. Non c’erano obiettivi particolari per le bombe. La speranza era di appiccare il fuoco un po’ dappertutto e di costringere i pompieri a starsene rintanati sottoterra.
Poi sui fuochi avviati furono rovesciate centinaia di migliaia di piccole bombe incendiarie, come semi su di una zolla appena rivoltata. Altre bombe furono sganciate per trattenere i pompieri nelle loro tane, e i fuochi poterono ingrandirsi e unirsi l’uno all’altro, e diventare una sola apocalittica fiammata. E in un attimo: tempesta di fuoco. Tra parentesi, fu il più colossale massacro di tutta la storia d’Europa. Ah sì, e allora?
Noi non riuscimmo a vedere il fuoco. Eravamo in un fresco deposito di carne, sotto il mattatoio, insieme con i nostri sei custodi e file e file di mucche, maiali, cavalli, pecore, macellati e squartati. Sentivamo le bombe che saltavano qua e là sopra di noi. Di tanto in tanto cadeva una lieve pioggerella di calcina. Se fossimo saliti a dare un’occhiata, ci saremmo trasformati in altrettanti oggetti caratteristici degli incendi; pezzi accartocciati di legna da ardere lunghi settanta, ottanta centimetri… esseri umani assurdamente piccoli, o, se preferite, colossali cavallette arrostite.
La fabbrica di sciroppo di malto era sparita. Tutto era sparito, tranne le cantine dove 135.000 Hansel e Gretel erano stati cotti al forno come altrettanti omini di pan di zucchero. Sicché fummo messi a lavorare come minatori di cadaveri; sfondavamo i rifugi e ne tiravamo fuori i corpi. Ebbi l’occasione di vedere tedeschi di tutte le età, così come la morte li aveva trovati, di solito con in grembo gli oggetti preziosi. A volte i parenti venivano a vederci scavare. Anche loro erano interessati.
Questo per ciò che riguarda i miei rapporti con i nazisti.
Suppongo che se fossi nato in Germania, sarei stato nazista, e avrei massacrato ebrei, zingari e polacchi, lasciando sporgere i loro stivali dai cumuli di neve, riscaldandomi all’idea della mia segreta virtù. Così è la vita.
C’è un’altra morale, evidente, in fondo a questo racconto, ora che ci penso: quando sei morto, sei morto.
E ancora un’altra me ne viene in mente adesso: fai all’amore quando puoi. Ti fa bene.

Iowa City, 1966

[Kurt Vonnegut, Madre notte, traduzione di Luigi Ballerini, Milano, SE 1993, pp. 11-13]