Pazienza
[Mi è stata chiesta un’intervista su un intervento di Christian Raimo, questo qui. L’hanno messa on line ieri sul sito del Sole 24 ore. Mi avevano assicurato che non avrebbero cambiato niente.; hanno cambiato sia le domande che le risposte.
Pazienza.
Copio qua sotto la versione giusta]
“La scelta che oggi si pone a uno scrittore, a un giornalista, a un intellettuale, a un semplice cittadino è questa: come posso vivere, fare esperienza, produrre arte, agire politicamente, ribellarmi, senza che tutto ciò si esaurisca in un gesto ininfluente?” Dice Raimo.
Lei che ne dice?
Chi scrive dei libri, secondo me, rischia sempre che le cose che fa siano ininfluenti, brutte o da buttar via. Se uno vuol esser sicuro del risultato fa un altro mestiere, magari il geometra, o il ragioniere. Io l’ho fatto, il ragioniere, mi sembra sia un mestiere molto dignitoso e a me ha dato anche molte soddisfazioni, e i conti tornavano, sempre, se c’era un errore lo trovavamo, sempre, e fare carriera, essere influenti, era relativamente semplice, e piuttosto remunerativo. Scriver dei libri e, in generale, occuparsi di arte, mi sembra voglia dire misurare le cose in un’altra maniera. Chlebnikov, Charms, Erofeev, per dire i primi nomi che mi vengono in mente, quando erano vivi fecero poco scalpore, influirono poco, mi viene da dire, sui contemporanei, non ci furono accesi dibattiti, sulle loro opere, molte delle loro cose furono anzi pubblicate dopo la loro morte, ma adesso noi li leggiamo molto di più di quanto leggiamo Severjanin o Ehrenburg o Vasilij Ivanovič Belov, che all’epoca erano molto più conosciuti, più dibattuti, se così si può dire, e più influenti di loro. Mi sembra che Christian ci inviti tutti a diventare dei Severjanin, o degli Ehrenburg, o dei Belov, ma non possiamo essere tutti degli dei Severjanin, o degli Ehrenbung, o dei Belov, e non credo sia un male, non essere tutti così.
A 36 anni, ha iniziato a pubblicare tantissimo, negli ultimi dieci anni i suoi libri sono usciti con tutte le case editrici più importanti. Qual è la sua storia, come ha trovato tutto questo spazio?
A un certo punto, avevo 33 anni, ero talmente disperato che ho concepito la possibilità di fare una cosa che mi piacesse, scriver dei libri. E mi son messo a scrivere tutti i giorni, senza preoccuparmi del fatto che non avevo, allora, nessuno spazio, così come oggi cerco di non preoccuparmi della mia influenza, che è, e immagino continuerà ad essere, irrisoria.
La sua scrittura è cresciuta anche nel rapporto con persone (altri scrittori e non solo), che condividono con lei l’interesse per una certa “forma” molto vicina all’oralità: so di incontri a cadenza mensile, di una rivista, di un complesso musicale…Si sente chiamato in causa quando Raimo denuncia il proliferare di “nicchie autocompiaciute o autoconsolatorie”? O si tratta di spazi prolifici e situazioni capaci di parlare anche a chi ne è fuori?
Non credo che Raimo intenda, quando parla di nicchie autocompiaciute o autoconsolatorie, le cose che facciamo con Daniele Benati, Ugo Cornia e altri qui in Emilia e da queste parti. Detto ciò, la frase del testo di Raimo sulle nicchie consolatorie, che ho letto perché me l’avete segnalata voi, il suo intervento mi era sfuggito, non leggo tanto i giornali (non li leggo affatto, a dire il vero), è questa: «Ma soprattutto: perché, da questo e da pochi altri piccoli esempi che si riconoscono in giro, non si potrebbe finalmente cominciare a rimodellare la forma di uno spazio di dibattito pubblico che sia al tempo stesso politico e culturale, e che non avvenga, come al solito, all’interno di nicchie autocompiaciute o autoconsolatorie?». Ecco: cominciare a rimodellare la forma di uno spazio di dibattito pubblico che sia al tempo stesso politico e culturale e che non avvenga, come al solito, all’interno di nicchie autocompiaciute e autoconsolatorie, è una cosa, devo confessare, che non mi interessa.
“Scrittori a cui si chiede un’autorevolezza da statisti, case editrici indipendenti che si fanno succedanee nel ruolo che avevano i partiti (come è accaduto per il decreto intercettazioni o per il sostegno pubblico alla cultura), festival della letteratura o del diritto che provano a fare le veci di un’università allo sbando: tentativi apprezzabili, accidentati percorsi collettivi e prometeici sforzi individuali.” Raimo parla molto di superficialità e inefficacia. Lei di cosa parlerebbe sempre in relazione alla situazione culturale italiana?
Guardi, io conosco Christian Raimo, ho letto i suoi libri, mi piacciono, vorrei che ne scrivesse degli altri, è una persona che stranamente, non lo conosco benissimo, ma che mi muove dentro una specie di inspiegabile affetto, è un uomo colto e preparato, ma quando scrive queste cose non lo capisco. Cosa vuole? mi viene da chiedermi. Lui a un certo punto della sua lettera dice: «Per farsi finanziare un’inchiesta sulla guerra in Somalia bisogna prima scrivere una decina di servizi sulle sfilate di moda a Addis Abeba…». Ma perché, mi viene da chiedermi, c’è bisogno di farsi finanziare un’inchiesta in Somalia? Se uno vuol fare un’inchiesta, o un romanzo, o una trilogia, sulla guerra in Somalia, non può andarci? Qualcuno ha finanziato il Castello a Kafka? Qualcuno ha finanziato Mosca – Petuški a Erofeev? Qualcuno ha finanziato Lo zoo a Chlebnikov? A un certo punto punto sembra quasi che Raimo rimproveri agli intellettuali, li chiama così lui, di non riconoscersi nei partiti o nei giornali nei quali scrivono: «Sono anni che sento i migliori giornalisti, i più interessanti intellettuali italiani, le persone che hanno a cuore il futuro politico di questo paese dar voce a un’unica geremiade che può assumere di volta in volta forme diverse ma ricorsive: non mi riconosco in un partito che non riesce a trasmettermi uno straccio di senso comunitario, scrivo per questo giornale di cui non condivido il progetto editoriale figuriamoci la linea culturale, lavoro per la rivista x perché almeno mi paga due lire, ho messo su un blog come forma di minima resistenza…». Mi viene in mente Brodskij: si riconosceva, forse, Brodskij, in qualche partito? Qualcuno gli ha finanziato le sue poesie? L’han mandato in Siberia, Brodskij. E lui, non si è neanche lamentato, ha scritto, anzi, in un celebre discorso, il discorso in occasione del Nobel per la letteratura che gli hanno assegnato (cito la traduzione di Giovanni Buttafava, in Dall’esilio, Adelphi 1988): «Il compito di un uomo, si tratti di uno scrittore o di un lettore, sta prima di tutto nel vivere una vita propria, di cui sia padrone, non già una vita imposta o prescritta dall’esterno, per quanto nobile possa essere all’apparenza.
La lingua e, presumibilmente, la letteratura, sono cose più antiche e inevitabili, più durevoli di qualsiasi forma di organizzazione sociale. Il disgusto, l’ironia o l’indifferenza che la letteratura esprime spesso nei confronti dello Stato sono in sostanza la reazione del permanente – meglio ancora, dell’infinito – nei confronti del provvisorio, del finito. Un sistema politico, una forma di organizzazione sociale, è per definizione una forma del passato remoto che vorrebbe imporsi sul presente (e spesso anche sul futuro); e chi ha fatto della lingua la propria professione è l’ultimo che possa permettersi il lusso di dimenticarlo. Il vero pericolo per uno scrittore non è tanto la possibilità (e non di rado la realtà) di una persecuzione da parte dello Stato, quanto la possibiltà di farsi ipnotizzare dalla fisionomia dello Stato, una fisionomia che può essere mostruosa o può cambiare verso il meglio ma è sempre provvisoria. La filosofia dello Stato, la sua etica, per non dire la sua estetica, scrive Brodskij, sono sempre ieri. La lingua e la letteratura sono sempre oggi e spesso domani».
Ecco, il compito che si prefigge Brodskij, provare a vivere una vita propria, lo capisco e mi interessa e credo valga la pena provare ad andargli incontro, anche se fa paura, e costa fatica, e ti sembra di non fare mai bene; le cose che mi sembra voglia Raimo, farsi finanziare un’inchiesta sulla guerra in Somalia o cominciare a rimodellare la forma di uno spazio di dibattito pubblico che sia al tempo stesso politico e culturale, e che non avvenga, come al solito, all’interno di nicchie autocompiaciute o autoconsolatorie non le capisco, non mi interessano, non mi fanno paura, non mi parlano, non mi dicono niente.