Parlare così

venerdì 6 Ottobre 2017

Dopo aver letto il suo ultimo romanzo, che si intitola Pulvis et umbra, e è appena stato pubblicato da Sellerio, sono andato a vedere Antonio Manzini che lo presentava a Bologna, alla libreria Ambasciatori, e lì, tra me e me, mi son detto che, un po’ mi dispiace, ma a me piace, Manzini. Io, devo essere strano, ma mi costa un po’, confessare che una cosa mi piace. Quando qualcosa non mi piace, un libro, o una canzone, o un film di cui parlano tutti e che tutti dicono che sono un libro, o una canzone, o un film bellissimi ecco, io, se li leggo, o li ascolto, o li guardo e poi non mi piacciono, io devo dire che quando poi lo dico, o lo penso, «Non mi è piaciuto», c’è una specie di piccola, infantile, stupida soddisfazione. Come se fosse un pregio, il fatto che quel libro, o quella canzone, o quel film, non mi piacessero, come se indicasse una certa mia superiorità rispetto alla massa che, essendo massa, è della gente che han delle teste che non le mangiano neanche i maiali, come dicono a Parma.
Io mi sento così bene, quando dico, con una punta di soddisfazione «Non mi è piaciuto», che delle volte son più contento di leggere un libro che credo che sarà brutto, invece di uno che mi immagino che sarà bello.
Invece Manzini, che piace alla massa, perché vende tanto, come si sa hanno fatto anche una serie televisiva, dai suoi romanzi, che ha avuto molto successo, ecco io devo riconoscere che Manzini piace anche a me: sia i libri che scrive sul suo commissario Rocco Schiavone (che non è un commissario ma un vicequestore e che credo sia uno dei tutori dell’ordine meno affezionati all’ordine che mi sia capitato di leggere, se è vero, come è vero, che, tra le altre cose, appena arriva in ufficio, al mattino, si fa una canna), che i libri dove Schiavone non c’è, come Sull’orlo del precipizio, che Manzini ha pubblicato per Sellerio nel 2015 e che è una specie di distopia nella quale si immagina un futuro del mondo editoriale italiano nel quale le case editrici saranno impegnate, tra le altre cose, nella traduzione dei classici, non solo di quelli stranieri, anche di quelli italiani.
L’inizio dei Promessi sposi, per esempio, «Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume» in quel vecchio libro di Manzini diventa: «Quel pezzo di lago in provincia di Como (città di 85 mila abitanti, situata in Lombardia dove nacquero Plinio il vecchio, Plinio il giovane e Alessandro Volta, l’inventore della pila), che davvero non si incula nessuno, sperduto in mezzo a montagne lunghe lunghe, pieno di insenature e golfi, si restringe all’improvviso e, toh, sembra quasi un fiume!». «Lo sente? – dice il redattore immaginario di Manzini – La prosa diventa moderna, pochi fronzoli, informazioni utili come se il testo fosse su internet e cliccando Como rilasciasse dettagli. Vuole che le legga l’incontro fra i coatti e don Abbondio?». «I coatti?», chiedono al redattore. «I Bravi, dai. – risponde lui – “Questo matrimonio non s’ha da fare…” Ma chi parla così? Ora, invece, senta che meraviglia: “Prova a fa’ sto matrimonio e ti rompiamo il culo, bello”. È un’altra cosa. È così che i giovani si avvicinano alla letteratura».
Adesso, mi rendo conto che quel redattore di Manzini è un personaggio paradossale, ma una delle cose che mi piacciono, nei libri di Manzini, è la capacità di maneggiare una lingua concreta, vicina a quella che parliamo tutti i giorni, una lingua che non ti fa mai pensare: «Ma chi è che parla così».
Forse per questo ci sono rimasto male quando, a pagina 40 di Pulvis et umbra, ho trovato un personaggio che si volta «attratto dal rumore degli pneumatici» di una macchina della polizia.
“Gli pneumatici?”, ho pensato, “ma chi è che parla così?”.
La sera che ero andato a vedere Manzini che presentava il suo libro, avevo poi trovato, sul sito di Repubblica, un titoletto che diceva «Tifoso provoca Borriello: “Fai meno sesso”», e sotto il titolo c’era un video nel quale si vedeva il pullman della Spal, la squadra dove gioca Borriello, e si sentiva la voce di un tifoso che diceva: «Borriello, scopa di meno».
Mi viene in mente un ragazzo il cui primo romanzo stava per essere pubblicato da una grande casa editrice italiana, e le prime parole di quel primo romanzo erano: «Cazzo, la pula!». Che era un inizio chiaro, mi viene da dire, che però non dev’essere piaciuto molto alla casa editrice che quel romanzo doveva pubblicare se è vero che avevano proposto all’autore di cambiare quell’inizio in «Cribbio, la madama!». Che è quasi la stessa cosa, ma è una cosa completamente diversa. Come fare sesso e scopare.
Allora, se credo che Manzini non abbia tutti i torti quando, a chi gli rimprovera di aver messo in scena un commissario, anzi, un vice-questore, che si fa delle canne, ribatte che le canne dovrebbero smettere di farsele quelli che fanno i palinsesti della Rai, che mettono in prima serata dei gialli ambientati in un posto (che, se non ho capito male, è Gubbio) dove tutti i misteri vengono risolti da un prete in bicicletta, mi piacerebbe però che lui tenesse a freno i redattori che lavorano sui suoi libri e lasciasse gli articoli come li diciamo per strada: i pneumatici.
Altrimenti, sarebbe il caso di rilanciare la proposta di Aldo Buzzi, che in un dialogo dentro il suo La lattuga di Boston scrive: «Sto lavorando anche a un’altra proposta per punire tutti quelli che invece di ‘i gnocchi’ scrivono ‘gli gnocchi’. Non c’è nessuna difficoltà a pronunciare i gnocchi, come non ci sono difficoltà a pronunciare ignoto, ignorante, ignobile. /…/ «Ahi! Ahi! E chi introduce nei cervelli queste assurdità?».
«Sono certe maestre… le figlie di quelle che un tempo insegnavano a scrivere: ‘carne in iscatola’. Mi ricordo una carne in iscatola che era rimasta nelle prime pagine di Tempo di uccidere di Flaiano. Ho sostituito l’iscatola con una normale scatola e Flaiano mi ha ringraziato. La saluto. Parto. Vado in Isvizzera… Non si agiti. Sto scherzando. Buon lavoro».

[Uscito ieri sulla Verità]