Ordinare di sparare
Cinquant’anni fa, sulla piazza dei teatri di Reggio Emilia, alle 4 del pomeriggio, c’era molta gente, per partecipare a una manifestazione indetta dalla CGIL che doveva concludere uno sciopero di protesta contro le violenze della polizia a Roma, il giorno precedente.
Per quella manifestazione era stata concessa la sala Verdi del teatro Ariosto, una sala che può contenere al massimo 400 persone.
Alle manifestazioni della CGIL, allora, a Reggio Emilia, partecipavano sempre migliaia di persone.
Al mattino il prefetto aveva dato ordine di «sciogliere con la forza qualsiasi assembramento non autorizzato».
Assembramento non autorizzato, per le leggi dell’epoca, voleva dire una riunione non autorizzata di più di tre persone.
E prima che cominciasse la manifestazione, sulla piazza qui dei teatri di Reggio Emilia, c’erano almeno duemila persone.
E prima che cominciasse la manifestazione, d’un tratto, la polizia ha caricato.
E subito dopo, inspiegabilmente, si è messa a sparare.
E ha sparato per quaranta minuti.
E ha ferito sedici persone, e ne ha uccise cinque, tutti operai.
Cinque operai che non avevano fatto niente.
Uccisi, sulla piazza dei teatri di Reggio Emilia, il 7 luglio del 1960.
Governo Tambroni.
Ministro degli interni Spataro.
Presidente della repubblica Gronchi.
Un commissario di polizia venne accusato, da due poliziotti, di aver dato l’ordine di sparare. La testimonianza di questi due poliziotti non fu però considerata attendibile.
Perché, scrive nella sentenza il dottor Curatolo Paolo, giudice estensore, uno dei due «era anche studente universitario, e poi ha lasciato la polizia».
La persona che era stata accusata di aver dato l’ordine di sparare, che in una corrispondenza privata parlò dei fatti di Reggio Emilia come di una sua «disgrazia professionale», fu assolta, perché vennero trovate, scrive il dottor Curatolo Paolo, delle «prove tranquillanti» della sua innocenza.
Le prove tranquillanti erano due: la prima, che spararono anche i carabinieri, senza ordine: «dunque, – scrive Curatolo Paolo, – nessuna meraviglia se senza ordine spararono anche le guardie comandate da» quella persona.
La seconda prova tranquillante risiede nel fatto che quella persona, la sera di quel giorno, disse di aver avuto la voce rauca perché si era sgolato per gridare di non sparare.
E un maggiore dei carabinieri testimoniò che quella sera, quella persona, aveva veramente la voce rauca. Dunque, aveva veramente ordinato di non sparare.
Queste cose sono scritte in una sentenza passata in giudicato, non appellabile.
Questa è la verità, secondo lo stato italiano.
Secondo lo stato italiano, chi ha la voce rauca, ha ordinato di non sparare.
A me è successo, ogni tanto, di avere la voce rauca.
Non mi è mai successo di ordinare di non sparare.
Il figlio di uno degli operai che furono uccisi, Ettore Farioli, quando uccisero sua padre aveva due anni.
Non si ricorda niente, di suo padre. «Mi son dovuto attaccare a una fotografia», dice. «La mia infanzia è stata monca», dice. «In pratica, – dice, – sono nato senza affetto, in pratica». «Queste son cose, – dice, – che la scuola, le istituzioni, se ne dovrebbero far carico».
[È uscito ieri su Gli altri]