Normali e poco normali

martedì 3 Febbraio 2009

Esce oggi sul manifesto (è un po’ lungo):

Se due anni fa mi avessero detto Vuoi venire ad Auschwitz? io avrei risposto, probabilmente, Non ci penso nemmeno. E quando l’anno scorso Silvia Mantovani, della fondazione Fossoli, mi ha proposto di fare il viaggio con loro, di partire in treno da Carpi e arrivar fino ad Auschwitz, in occasione del giorno della memoria, insieme a seicento o settecento tra studenti e professori e politici e scrittori e cantanti, ripercorrendo la strada che avevano fatto settant’anni prima cinquemila italiani, che dal campo di concentramento di Fossoli erano stati tradotti, come si dice, in quei due campi là, Auschwitz e Auschwitz due (così chiamavano Birkenau), io le ho detto Guarda, Silvia, non lo so, io a queste cose come il giorno della memoria sono un po’ contrario. E mi aspettavo che lei mi dicesse Ah, va bene, grazie, scusa, e mettesse giù. Invece, mi ricordo, mi ha detto Ma sai che anch’io, sono un po’ contraria a queste cose come il giorno della memoria? Ne possiamo parlare sul treno. Allora sono andato. Anche se, l’anno scorso, io ho preteso, in un certo senso, di ripartire poi subito, fare il viaggio con loro, fermarmi una notte a Cracovia e poi prendere un aereo e tornare indietro. Questo per diversi motivi.
Dovevo finire un lavoro, lo dovevo consegnare nei giorni immediatamente successivi, e questo era il motivo principale e la scusa, principale, che queste scadenze, queste date di consegna, per i lavori che faccio io non sono quasi mai rigide, se avessi chiesto di consegnare due o tre giorni dopo mi avrebbero probabilmente detto che andava bene lo stesso. Valeva forse di più il fatto che, tornando il mattino del terzo giorno, non sarei dovuto andare, fisicamente, né ad Auschwitz né a Birkenau, e quindi è vero, avrei fatto il cosiddetto viaggio della memoria, ma non mi sarei trovato di fronte a quella roba lì, ai campi di concentramento che son diventati musei che era una cosa sulla cui opportunità avevo dei dubbi, e in parte li ho ancora. I due giorni di visita ai campi, che volevo schivare, rischiavano di essere, nella mia immaginazione, un estratto di retorica che avrei fatto fatica a sopportare. Poi c’era anche, devo dir la verità, la paura. Un po’ mi faceva paura, quella roba lì, che è una roba rispetto alla quale ti viene l’istinto di voltare le spalle. Ma soprattutto, credo, c’era il fatto che io, quelli della fondazione Fossoli, non li conoscevo bene. Non sapevo che atmosfera avrei trovato, in quel viaggio, e avendo provato, qualche volta, andando in giro per l’Italia a presentare dei libri, l’impressione di essere ostaggio di quelli che mi avevano invitato, solo, in una città sconosciuta, a sostenere, e subire, lunghissime conversazioni sulla crisi del mercato editoriale, o sul fatto che in Italia la gente non legge, o su come siano importanti i libri, la prospettiva di trovarmi in una condizione del genere, per cinque giorni, e non Italia, in Polonia, tra Cracovia, Auschwitz e Birkenau, e non a parlare della crisi dell’editoria, ma dell’olocausto e del male assoluto e dell’importanza della memoria e del piantare un seme che crescerà un albero, era una prospettiva che, con tutto che Silvia Mantovani mi era simpatica, farmi tutti e cinque i giorni devo dire che mi sembrava rischioso. Invece poi l’anno scorso, nei due giorni in cui son rimasto, mi son trovato così bene che a quelli di Fossoli ho detto Se mi invitate anche l’anno prossimo vengo anche l’anno prossimo. E loro mi hanno invitato. E questa volta sono stato via cinque giorni, son partito in treno, son tornato in treno, e ho partecipato a tutte le serate e a tutte le visite, son stato ad Auschwitz e a Birkenau e è stato un viaggio talmente strano, son tornato contento, mi vien perfino da dire che mi son divertito, ma cerco di non dirlo, che se dicessi così la gente chissà cosa penserebbero, Sei stato ad Auschwitz e ti sei divertito? Non lo dico, anzi, ero ancora in treno che mi hanno cercato sul cellulare per una cosa e io ho risposto Sto tornando dalla Polonia, mandami una mail per cortesia, che ti rispondo stasera, e nel dire così mi son ricordato che già prima di partire, io andavo ad Auschwitz, e dicevo a tutti Vado in Polonia, e adesso, che stavo tornando, tornavo da Auschwitz e dicevo a tutti Norm dalla Polonia. Che Auschwitz è un nome che si fa fatica a farci dei ragionamenti intorno, a raccontare le cose come le si è viste, perché una cosa che succede ad Auschwitz uno ha l’impressione che debba sempre e comunque essere una cosa che ha, in sé, un qualche orrore, la faccia automaticamente si atteggia al dispiacere, come se Auschwitz non fosse anche, prima di tutto, mi vien da dire, un posto, dove vive della gente come noi, normale, o meglio, come noi, sia normale che poco normale. Come se uno che, per esempio, nasce, ad Auschwitz, dovesse portare per sempre, con la sua carta d’identità, quel marchio lì: te sei nato lì, e quindi devi portare con te sempre un po’ di orrore.
Per via del viaggio di quest’anno, è vero, ci sono stati dei momenti, in questo viaggio, che mi veniva da voltare le spalle, come quando, alla fine della visita a Birkenau, con una guida che senza nessuna enfasi ti racconta com’era organizzato il campo, e ti dice che quelli che vedi, quella distesa di camini, è quel che è rimasto delle baracche, e ogni baracca ne aveva due, e non funzionavano quasi mai, perché non c’era niente con cui accenderli, e sembra che li abbiano fatti per dimostrare che i detenuti venivano trattati bene, che stavano al caldo, e non lo sai se è vero, ma se fosse vero sarebbe stranissimo il fatto che quel che è rimasto, quel che è durato più a lungo, la testimonianza, per così dire, è la cosa che non serviva, la cosa finta, mentre la cosa vera, il legno delle baracche, il legno dei letti a castello, per la maggior parte è marcita. Alla fine di questa visita, stavo dicendo, dopo che ti hanno spiegato come era organizzato il campo, e da dove arrivavano i deportati, dove si fermavano, e le strade che prendevano, la maggior parte verso le camere a gas, gli altri verso le baracche, dopo che hai visto le foto dei deportati in divisa, quella famosissima, a strisce, con i triangoli di colori diversi a seconda delle categorie, dopo che hai visto i forni crematori, che erano gli strumenti per lo smaltimento dei rifiuti, in un certo senso, dopo che hai in testa tutta questa metafisica dell’orrore, in un certo senso, tu ti trovi davanti a un muro con le fotografie dei deportati, quelle che si erano portati loro da casa, fotografie della vita di prima, e ti accorgi che quella gente lì era della gente che fumavan la pipa, e andavano al mare, e stavano sopra le sdraio con degli accappatoi bianchi, e guardavano in macchina, trattenendo un sorriso, e si vestivano bene per andar dal fotografo, e guardavano in macchina come se fossero sicuri, come per dire Fotografami, che mi son preparata. Ecco io, lì, ancora, mi è venuto l’impulso di voltare le spalle, e una volta uscito ho guardato lontano, fuori dai confini del campo, e ho visto una casa, che sembrava recente, costruita al massimo negli anni sessanta, e ho pensato Ma questa gente qua come fa, a vivere qui? E dopo, uscito dal campo, è passato un autobus, polacco, pieno di polacchi, com’è naturale, che abitavano lì, e che usavan quell’autobus per andare a casa, o per andare in città, e mi guardavano, e io li guardavo e mi sembrava stranissima, la loro tranquillità. Solo che il giorno dopo, quando siamo tornati a Birkenau dopo essere stati ad Auschwitz, ad Auschwitz uno, che è tutto diverso, un museo, e dove mi era successo ancora di voltare le spalle dopo che la nostra guida polacca ci aveva indicato una specie di baldacchino di legno e ci aveva detto, in ottimo italiano, e con un tono deciso che tradiva una certa soddisfazione, che l’ex direttore nazista del campo, Rudolf Franz Höss, dopo essere stato arrestato in Germania, dove si era nascosto sotto falso nome, era stato trasferito in Polonia e lì processato e condannato all’impiccagione e la sentenza era stata eseguita ad Auschwitz ed era stata costruita appositamente una forca Che è quella lì, ci aveva detto la nostra guida indicando il baldacchino, quel pomeriggio, quando siamo tornati poi a Birkenau, io mi sono trovato a entrare nel campo di Birkenau parlando con un mio amico e senza far caso per niente al posto in cui eravamo, l’avevo visto il giorno prima e era già un paesaggio abituale, e io mi meravigliavo dei polacchi.
È vero, dicevo, ci son stati quei momenti lì, che ti veniva da voltare le spalle, ma ce ne son stati degli altri uguali e contrari, quando per esempio, durante la cerimonia ufficiale, i primi che si sono avvicinati al monumento che c’è alla fine del viale di Birkenau, per deporre le loro corone di fiori, era un gruppetto di dieci–dodici ex deportati, dei vecchietti, e delle vecchiette, con i fazzoletti bianco–azzurri al collo, e uno camminava con le stampelle, e facevan fatica, e uno ha fatto cadere il lumino che aveva, e a me è venuto da pensare che bisognava far delle fotografie a quelle facce lì e metterle in tutte le case e negli uffici pubblici. E quando poi, tra tutte le altre delegazioni ufficiali degli stati che si son succedute, rappresentanti dei paesi che hanno avuto delle vittime ad Auschwitz, armeni, croati, ungheresi, francesi, slovacchi, maltesi, cechi, serbi, svedesi, tedeschi, sloveni e altri ancora (l’Italia non era rappresentata), si sono avvicinati due signori, rappresentanti del popolo rom, che avevan due cappelli a tesa larga, come si dice, un po’ da cow boy, e uno dei due aveva il pizzetto e il codino, e un’aria un po’ da puttaniere, e uno si immaginava una Mercedes un po’ impolverata che l’aspettava fuori, e vedere la proprietà con la quale quei due stavan lì dentro, era una cosa che riempiva gli occhi, e non ti stancavi mai di guardarli.
E, per esempio, mi viene in mente adesso, c’era un ragazzo partito con noi che aveva una spilla con una croce celtica sullo zaino. E prima di entrare a Birkenau gli han fatto notare che forse non era il caso. E lui ci ha pensato poi ha detto Va bene, la tolgo.