Non sto sindacare ciò che ha visto l’arbitro

sabato 3 Novembre 2018

Una delle partite di calcio più strane degli ultimi anni è stata una partita che si è giocata a Madrid l’11 aprile del 2018, poco più di sei mesi fa; era il ritorno dei quarti di finale di Champions League e giocavano il Real Madrid, padrone di casa, e la Juventus. All’andata, a Torino, 8 giorni prima, la Juventus aveva perso 3 a 0. Una sconfitta umiliante, che aveva, in un certo senso, replicato l’umiliante sconfitta del giugno precedente, a Cardiff, in Galles, nella finale della Champions League del 2016/2017, quando la Juventus, che in Italia molti davano per favorita, aveva perso 4 a 1.
Quella sera dell’11 aprile del 2018, invece, la Juventus era tutt’altro che favorita, anche perché il giorno prima, il 10 aprile del 2018, a Roma, si era giocata Roma – Barcellona, altro quarto di finale di Champions League, e la Roma, che all’andata aveva perso 4 a 1, aveva vinto, in casa, 3 a 0 e aveva passato il turno grazie alla regola dei gol in trasferta che valgono doppio. Chi avrebbe scommesso su due vittorie così clamorose nel giro di due giorni? Nessuno. La Juventus, che, per passare il turno, avrebbe dovuto vincere 4 a 1, oppure 3 a 0 e sperare poi nei calci di rigore, aveva contro non solo il Real Madrid, anche la legge dei grandi numeri.
Sembrava un’impesa impossibile; invece, dopo due minuti, la Juventus era già in vantaggio 1 a 0, gol di testa di Mandzukic; dopo 37 minuti era già in vantaggio 2 a 0, gol di testa sempre di Mandukic; dopo 60 minuti era in vantaggio 3 a 0, gol di Matuidi grazie una ridicola mancata presa del portiere del Real Madrid Navas. Il Real Madrid, c’è da dire, era stato abbastanza sfortunato, aveva preso una traversa e aveva avuto diverse occasioni per fare il gol che gli serviva per passare il turno, ma quel gol non l’aveva fatto e la Juventus, se fosse arrivata alla fine dei tempi regolamentari sul 3 a 0, avrebbe cominciato i supplementari con l’entusiasmo di una squadra che è a un passo da un’impresa memorabile. Solo che lì, a un passo da un’impresa memorabile, a dieci secondi dalla fine del recupero, era successa una cosa stranissima: c’era stato un cross nell’area della Juventus, Cristiano Ronaldo, di testa, aveva passato la palla al suo compagno Vazquez che era davanti al portiere da solo e stava per tirare quando era stato tamponato dal difensore marocchino della Juventus Medhi Benatia, e il giovane, promettente arbitro inglese Michael Olivier aveva concesso il calcio di rigore.
C’era stata qualche protesta, soprattutto del capitano della Juventus, il portiere, che si chiamava Buffon, e erano state delle proteste tali che avevano costretto il giovane, promettente arbitro inglese Michael Olivier a espellere l’anziano portiere italiano. Portiere che, dopo la partita, aveva detto: «Non sto sindacare ciò che ha visto l’arbitro. Era sicuramente un’azione dubbia. E un’azione dubbia al 93′, dopo che all’andata non ci è stato dato un rigore sacrosanto al 95′, non puoi avere il cinismo per distruggere una squadra che ha messo tutto in campo. Ti ergi a protagonista per un tuo vezzo o perché non hai la personalità adatta. Un essere umano non può fischiare un’uscita di scena di una squadra dopo un episodio stradubbio: al posto del cuore hai un bidone della spazzatura. Se non hai la personalità per stare da protagonista in campo stai in tribuna con tua moglie e i tuoi figli e ti godi lo spettacolo, bevi la Sprite e mangi le patatine». Parole che erano poi costate, all’anziano portiere italiano, tre giornate di squalifica. Per la cronaca, e per quei pochissimi lettori che non lo dovessero sapere, Ronaldo aveva poi tirato il rigore e aveva fatto gol. Real Madrid in semifinale (avrebbe poi vinto anche quella Champions League) e Juventus ancora a casa. Proprio una sfortuna. Ma la cosa che fa di quella partita una partita memorabile, al di là delle circostanze, dell’essere quasi arrivati a fare un’impresa, del giovane arbitro che non era stato in tribuna ma era sceso in campo e aveva dato il rigore, dell’uscita di scena ingloriosa dell’anziano portiere, al di là di tutto questo, quella partita è memorabile anche per il piacere con cui i non juventini se la ricordano.
È un piacere che ha a che fare, come abbiamo detto la settimana scorsa, con la parola russa zloradstvovat’, che significa «godere delle disgrazie altrui», un po’ come la parola tedesca Schadenfreude che, secondo una psicologa citata da Wikipedia, che si chiama Grazia Aloi, è un sentimento che dipende dalla «considerazione di scarsissimo valore di Sé che si riflette nella consolazione (molto spesso errata) che anche il sé degli altri sia scarso e non degno». Ecco, si vede che io penso di valere molto poco, perché questa Shadenfreude non la provo solo nel calcio, ma anche in altri ambiti. Qualche anno fa, per esempio, ho saputo che un celebre storico della Russia, Orlando Figes, che ha pubblicato dei libri molto noti, come La danza di Nataša, tradotto in molte lingue, era stato accusato di mettere delle recensioni positive, su Amazon, ai propri libri, e delle recensioni negative ai libri dei propri colleghi, usando uno pseudonimo molto simile al suo nome. Aveva risposto, offeso, dicendo tra l’altro che se avesse fatto una cosa del genere non sarebbe stato così stupido da scegliere uno pseudonimo così riconducibile a lui. Poi uno di quei commenti che comparivano sotto i libri delle colleghe di Figes era stato un po’ offensivo e quella collega aveva sporto denuncia contro ignoti, e c’era stata un’indagine della polizia postale che aveva scoperto che il computer da cui erano partiti quei commenti malevoli era il computer di Figes. Al che Figes aveva detto che si scusava tanto e che aveva scoperto che era stata sua moglie. E il mattino dopo aveva cambiato versione aveva detto «No, scusatemi, sono stato io». Ecco io, forse sono cattivo, e ho una pessima considerazione di me, ma questa storia di Orlando Figes io la trovo meravigliosa: mi ricordo come mi ha messo di buon umore, la prima volta che l’ho sentita, e raccontarla, non so perché, mi piace molto. Ci provo proprio gusto. Un po’ come a raccontare certe sconfitte della Juventus, per esempio. Perché quel che ha detto il tennista Andre Agassi dopo che aveva vinto il primo Wimbledon della sua vita («Adesso che ho vinto uno slam, so qualcosa che a pochissimi al mondo è concesso sapere. Una vittoria non è così piacevole quant’è dolorosa una sconfitta. E ciò che provi dopo aver vinto non dura altrettanto a lungo. Nemmeno lontanamente» la traduzione è di Giuliana Lupi), questa cosa che dice Agassi, che una sconfitta lascia un segno che dura molto più a lungo del segno lasciato dalla vittoria, io credo non valga solo per le proprie sconfitte, ma anche per quelle degli altri.

[Uscito ieri sulla Verità]