Non lasciatevi pescare seduti

mercoledì 28 Dicembre 2016

Erving Goffman

Siamo abituati a ritenere che le regole di decoro che prevalgono nei luoghi sacri, come ad esempio nelle chiese, siano molto diverse da quelle che prevalgono sul lavoro. Cionostante non si deve pensare che le norme che vigono nei luoghi sacri siano più numerose o più rigide di quelle che troviamo sui luoghi di lavoro. In chiesa, infatti, è ammesso che una donna stia seduta, sogni ad occhi aperti e magari dormicchi, ma una commessa di un negozio di abbigliamento deve stare in piedi, all’erta, evitare di masticare chewing-gum, sorridere, anche se non sta parlando con nessuno, e indossare abiti che può a malapena permettersi.
Una forma di decoro che è stata studiata nella istituzioni sociali è ciò che si può chiamare «fare finta di lavorare». In molti stabilimenti si sa che non solo è richiesto agli operai di produrre un certo quantitativo entro un certo tempo, ma si pretende altresì che essi, in determinate situazioni, diano l’impressione di star lavorando intensamente. Ecco quanto si racconta a proposito di un cantiere navale:

Era interessante osservare l’improvvisa trasformazione che aveva luogo tutte le volte che correva voce che il capocantiere era sullo scafo o nell’officina o che stava per arrivare un dirigente. Tutti i capireparto correvano dai loro operai e li incitavano a darsi da fare ostentando un’attività qualsiasi. «Non lasciatevi pescare seduti», era la parola d’ordine, e anche dove non c’era niente da fare, un tubo veniva laboriosamente piegato e filettato, o un bullone già saldamente fissato al suo posto veniva assoggettato a una più forte e inutile stretta. Questo era l’omaggio formale che invariabilmente veniva tributato a ogni capo in visita e il rituale era tanto ben conosciuto sia dagli operai che dai capi, quanto lo è nell’esercito quello riservato all’ispezione di un generale di corpo d’armata. Il trascurare un qualsiasi dettaglio dell’inutile esibizione a vuoto sarebbe interpretato come un segno di particolare mancanza di rispetto.

[Erving Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, traduzione di Margherita Ciacci, Bologna, il Mulino 1969, pp. 130-131]