Nido

sabato 15 Novembre 2008

Metto qua sotto il discorso sugli asili nido, dentro il quale ho messo diversi suggerimenti che sono venuti dai commenti. Grazie a tutti (è molto lungo).

Una femmina
(discorso sugli asili nido
pronunciato a Fidenza
il 15 novembre 2008
in occasione di un convegno intitolato
Vivere e condividere il nido, la figura paterna al nido)

Avere a che fare con dei bambini di due anni, secondo me è difficilissimo. Loro son lì, sono indifesi, in un certo senso tu ne puoi fare quello che vuoi, sono creta nelle tue mani, come si dice. Dipende tutto da quel che gli dici e da come li abitui. Ne vuoi far dei nazisti, ne fai dei nazisti. Ne vuoi fare dei mistici, ne fai dei mistici. Ne vuoi fare dei pittori, ne fai dei pittori.

Una grande matematica russa ricorda nelle sue memorie che il fatto di essere diventata matematica dipendeva dalla carta da parati che c’era nella sua stanza quando era piccola.

I suoi, non avevan tanti soldi, avevano tappezzato la stanza con un vecchio manuale di matematica e lei, vedersi intorno sempre queste radici quadrate, queste equazioni a tre incognite, quando ha poi cominciato a studiar matematica le è sembrato subito facile, una lingua familiare, e è andata giù per quella strada lì e è diventata una grande matematica russa. Ancora meglio di sua sorella che avrebbe potuto sposare Dostoevskij ma ha preferito di no.

Io mi ricordo i primi tempi dopo che è nata mia figlia, io non avevo capito tanto bene, cos’era successo. Mi ricordo che quando l’ho vista venir fuori, in sala parto, la prima cosa che ho pensato è stata Merda, è uguale a me. Mi sembrava proprio uguale identica, era anche pelata. Con un accenno di capelli, dietro le orecchie, che era del rosso che avevo io quando ero piccolo.

C’è un’operetta di uno scrittore russo che a me piace molto, Daniil Charms, che comincia così:

Mi chiamano cappuccino. Per questo mi toccherà strappare le orecchie a qualcuno, ma adesso quello che non mi dà pace è la gloria di Jean-Jacques Rousseau. Perché sapeva tutto? E come fasciare i bambini, e come maritar le ragazze. Piacerebbe anche a me, saper tutto. Io poi so giù tutto, solo non ho fiducia nelle mie conoscenze. Sui bambini, so con certezza che non bisogna fasciarli per niente, bisogna distruggerli. Per questo io farei in una città una buca centrale e ci butterei tutti i bambini. E perché dalla buca on venisse puzza di decomposizione, una volta la settimana ci si potrebbe aggiungere la calce viva. Nella stessa buca ci spingerei anche tutti i pastori tedeschi.

Di mestiere faceva lo scrittore per bambini, Daniil Charms, ed era popolarissimo. In un’altra operetta, scrive:

Sterminare bambini, è una cosa crudele. Ma qualcosa con loro bisogna pur fare.

Lui davvero, nelle sue opere per adulti, aveva dei protagonisti un po’ tutti così, che i bambini, loro, non li sopportavano, ma chissà se anche lui era così. Chissà cosa pensava davvero, lui, Daniil Charms. Non aveva figli. Chissà se avesse avuto dei figli, che quando ce li hai, soprattutto quando son piccoli, ti succedon delle cose stranissime e tutte le tue idee sull’educazione le metti alla prova.

Io quando era appena nata mia figlia, nel 2004, stavo leggendo un libro dove c’era uno che parlava di quando era appena nata sua figlia e diceva che quando ti nasce un figlio tu ti devi mettere a correre, e era un po’ la cosa che era successa a me. Che io, quando è nata mia figlia mi sono trovato improvvisamete senza pomeriggi. Mi svegliavo al mattino e, trac, mi trovavo che era sera, mi erano spariti i pomeriggi che era una cosa che non mi era mai successa nella mia vita.

Allora in quel senso gli asili nido un po’ ti aiutano, a ritrovare dei pomeriggi, viene da chiedersi come fanno le maestre dell’asilo, coi pomeriggi.

Che poi, quando ti nasce un figlio che lo porti all’asilo nido ti vengono in mente delle domande, ma anche stupide, per esempio, Ma le maestre delnido, se hanno dei figli, ci vanno al nido, i loro figli?

Che poi tra l’altro, io non son sicuro che sia la terminologia esatta, però mi ricordo quando c’è andata mia figlia, all’asilo nido, la sua maestra la chiamava la dada, che io ho ripensato a quando studiavo quel periodo lì dell’inizio del novecento che tutti gli intellettuali europei si chidevano Ma cosa signifca, questa parola, cosa significa, ecco, avevo pensato, cosa significa, maestra d’asilo.

Però c’è da dire una cosa, che se no uno potrebbe pensare che il nido uno lo usa come parcheggio dei figli, così si ritrova coi suoi pomeriggi, che uno ai figli preferisce i suoi pomeriggi, non è così.

Non è così perché io, per esempio, se fosse stato per me, mia figlia non l’avrei neanche mandata, al nido. Io, poi, se fosse stato per me, non l’avrei mandata neanche alla scuola materna, e neanche alla scuola elementare, e soprattutto non a quella media e forse forse neanche a quella superiore, e questo dipende dal fatto che io, con le scuole, ho avuto delle brutte esperienze, ma lasciamo ben perdere.

Non all’asilo, all’asilo non ci son stato perché mio babbo era convinto che all’asilo si prendevano le malattie, cosa della quale è convinto anche Bazzocchi, il dottor Bazzocchi, il pediatra di mia figlia, che era contrario, all’asilo nido, Ci sono i nonni, diceva, lasciatela ben dai nonni, abbiamo un pediatra all’antica, non che non sia bravo, è bravo, ma è un po’ all’antica, come mio babbo, solo che poi mia figlia all’asilo c’è andata perché più del pediatra e del babbo ha potuto la mamma, di mia figlia, che mia figlia all’asilo la voleva mandare che adesso si potrebbe pensare che ce la voleva mandare per parcheggiarla così le tornavano fuori i suoi pomeriggi, non era per quello, che io mi ricordo i primi tempi che mia figlia andava al nido, adesso è una cosa che è risaputa, ma per me quando è successa non era risaputa per niente, era la prima figlia che avevo, e i primi giorni che è andata al nido, quando ci andava insieme a sua mamma, quando facevano l’inserimento, sua mamma veniva a casa e diceva Per me sarà difficile, fare a meno dell’Irma, si chiama Irma, mia figlia. E mi ha raccontato che nel giardino davanti all’asilo, succedeva che le mamme senza i bambini si fermavano a piangere per delle mezz’ore, quando finiva l’inserimento.

Allora, dal mio punto di vista, l’inserimento io ho sempre pensato che era il momento che le mamme andavano insieme ai bambini dentro l’asilo con le maestre d’asilo per non sentire così subito la mancanza dei loro bambini. Poi a un certo punto le cacciavano via e loro si fermavano a piangere dentro il giardino. Il giardino dell’asilo dell’Irma era grandissimo.

Insomma, comunque, adesso io non è che abbia tanto da dire, sul nido, come tema specifico. Mi ricordo per dire la prima volta che ci sono andato, all’incontro con le maestre d’asilo, prima ancora che ci entrasse mia figlia, io sono stato il primo, in famiglia, a mettere piede in quell’asilo lì, e mi ricordo che a quell’incontro lì ho scoperto che il pidocchio, liberato nell’ambiente, non riesce a sopravvivere, per vivere ha bisogno del cuoio capelluto, che per lui è come l’ossigeno per noi, una cosa stranissima, immaginarsi tutta un’atmosfera fatta di cuoio capelluto, eppure per il pidocchio è così, dicevano le maestre d’asilo, le dade di quell’asilo lì dell’avanguardia del secolo scorso che ha fatto mia figlia, che si chiama Irma.

Però, per certe cose, adesso non voglio dire che avere un figlio piccolo sia brutto, no, può essere anche bellissimo, per me è stato bellissimo e poi per certe cose come l’ultimo dell’anno per dire può essere anche un sollievo.

Che io, l’ultimo dell’anno dell’anno 2004, con l’Irma che aveva due mesi è stato il primo ultimo dell’anno che non ho avuto dopo tanti anni il pensiero di cosa fare l’ultimo dell’anno, e io quella notte lì me la ricordo come una notte incantevole, e è stata la notte che ho cominciato a leggere i romanzi di Joseph Roth, La cripta dei cappuccini, per esser precisi.

Per chi come me non aveva mai letto niente di Joseph Roth, leggere La cripta dei cappuccini e anche altri libri di Joseph Roth che ho letto poi dopo all’inizio dell’anno uno resta stupito dal fatto che descrivono un mondo che non c’è più, l’impero austroungarico, e lo descrivono nel momento che sta sparendo, sembra quasi che Roth scriva nel preciso momento che il mondo dell’impero austroungarico viene sostituito dal mondo del post impero austroungarico, mentre glielo stanno togliendo da sotto i piedi, e io leggerli mi è venuto in mente che noi anche il nostro mondo ce lo stanno togliendo da sotto i piedi, anche lui è appena scomparso o sta scomparendo però non ha un nome preciso come impero austroungarico, neanche impreciso, ce l’ha, un nome, ma non importa, possiamo benissimo chiamarlo anche noi Impero austroungarico.

L’impero austroungarico era un posto che per esempio una sua caratteristica era che c’erano i telefoni a gettone, e c’erano i barbieri, e le pettinatrici, e c’erano i bar, ci sono ancora i barbieri, solo che non si chiamano più così, e ci sono ancora i bar, ma quelli dell’impero austroungarico erano dei luoghi di meditazione di sofferenza e di filosofia che succedevan delle cose che adesso succedono meno per esempio c’erano i telefoni a gettone dentro nei bar, e una cert’ora c’eran le mogli che telefonavano ai baristi per chiedergli indietro i loro mariti era un posto difficile, l’impero austroungarico, ma a me piaceva e poi c’ero abituato e c’era per esempio una cosa che adesso ormai non c’è più che era il buon padre di famiglia, che è una figura sulla quale è fondato il diritto romano e che improvvisamente, da un giorno all’altro, via, tutta l’autorità dei padri, via, proprio nel momento che son diventato padre io.

Che io non dico che sia un male, anzi, probabilmente è un bene, solo che noi ci troviamo, per forza di cosa, senza parametri, bisogna inventarsi tutto, non puoi rifare quello che hai visto che faceva tuo babbo, devi inventarti tutto, volta per volta, e non è mica facile.

Che abituarsi al nuovo, è sempre difficile, non solo in un ambito così delicato come la famiglia, anche in ambiti apparentemente meno impegnativi come la tecnologia che io, per esempio, sono uno che con la contemporaneità ha sempre avuto dei problemi.

Fino a pochi anni fa, quando vedevo uno col cellulare, mi sembrava come uno che avesse, non so come dire, tradito. Tradito cosa? Il mondo così come mi sembrava che dovesse essere a me. Il mondo a cui ero abituato. Quello lì con le cabine telefoniche e i gettoni.

Andar via, anche nelle cose apparentemente piccole, come lasciare gli appartamenti, anche quelli dove hai vissuto per due mesi, fa un male.
E lasciare un mondo, quel mondo lì, con i gettoni telefonici, dove i barbieri si chiamavan barbieri, non so se si capisce, fa malissimo.
Adesso son nove anni, che ho il cellulare. Lo uso. I primi cinque anni, non ho mai mandato degli sms. Adesso son quattro anni, che mando degli sms. Quando ho bisogno.
A me facevano arrabbiare anche quelli che andavano sui pattini a rotelle, i pattini con le ruote on line, se si dice così, non si dice così. Mi ricordo una volta a Parigi che ho pensato Guarda che roba. Della gente anche grande. Con la cravatta.
Ci metto un sacco di tempo, a entrare in confidenza con le cose.
Allora, non so per esempio, io di mestiere scrivo dei libri, e da quando lo faccio, questo mestiere, che son dieci anni, c’è un po’ di gente che mi ha proposto di mettere su un sito internet, solo che io pensavo Ma i siti internet di quelli che scrivono i libri, che senso hanno? Non farebbero meglio a scriver dei libri, invece di mettere su dei siti internet? ho sempre pensato.
Dopo ho conosciuto uno che mi ha quasi convinto a fare un sito per una rivista che stavamo e che stiamo facendo, che è un settemestrale di letteratura comparata al nulla e si chiama L’accalappiacani, e ho visto che, insomma. Non succedeva niente di brutto. Poteva essere anche utile.
Allora poi ho messo su un sito internet anch’io che poi delle volte, per esempio in questo caso, se uno deve scrivere un discorso sugli asili nido e a metà del discorso si accorge che lui ne sa pochissimo, degli asili nido, può mettere l’inizio del discorso in rete e chiedere ai frequentatori del suo sito internet di dargli dei consigli, che è un po’ poi come chiederlo ai frequentatori del bar, versione moderna, ma insomma, forse è un po’ la stessa cosa.
E così ho fatto io, ho messo l’inizio di questo discorso in rete, i primi due paragrafi, e poi ci ho scritto Si accettano suggerimenti.

E dopo un po’ mi sono arrivati, per esempio questo di Aida.

Io non sono tanto sicura che l’equazione sia quella giusta, secondo la mia esperienza funziona piuttosto così:

“Avere a che fare con dei GENITORI, per i bambini di due anni,è difficilissimo. Loro son lì, sono indifesi, in un certo senso tu ne puoi fare quello che vuoi, sono creta nelle tue mani, come si dice. Dipende tutto da quel che gli dici e da come li abitui. Ne vuoi far dei nazisti, ne fai dei nazisti. Ne vuoi fare dei mistici, ne fai dei mistici. Ne vuoi fare dei pittori, ne fai dei pittori”

Mio figlio, per esempio, è riuscito a farmi diventare ciò che desiderava io diventassi.
Oppure questo di Raffaele
– Le tenniste Stefi Graf, Monica Seles e Pierce hanno iniziato a giocare a due anni: più campi da tennis e meno asili?


Oppure questo di Giancarlo Tramutoli, che è un poeta, e ha scritto una poesia:
Chissà perché
Nessun rumore
Si ode
All’Asilo Erode.

Oppure questo di Mattia
Una volta ero con mia nipote, l’avevo portata a vedere una partita di calcio al campo comunale. Poi l’arbitro aveva fischiato il fallo e le avevo detto Hai sentito? L’arbitro ha fischiato il fallo e adesso il giocatore tira la punizione. E lei mi aveva dato una di quelle risposte spiazzanti Ma tu zio, mi aveva detto, ma tu, questa partita l’hai già vista?
Oppure questo di Mirella:

Un contributo modesto, diciamo pure terra a terra.
Non è vero, secondo me, che i bambini si possano plasmare a piacimento. Ogni bambino ha il suo carattere, le sue predisposizioni, le sue dotazioni. Non c’è un bambino uguale a un altro.
Una cosa li accomuna i bambini: un altissimo livello di intelligenza e un intuito prodigiosi.
Credo che questa primaria grande intelligenza, sia alla base della convinzione che ciascun adulto ha, anche il più tonto, di essere, se non proprio un genio, uno con un cervello mica male.
Infatti, non so se avete notato, ma anche se tutti i fatti e gli accadimenti della nostra vita sono lì a dimostrarci il contrario, tendiamo sempre a crederci intelligentissimi, forse perché una volta, quando eravamo piccoli, lo siamo veramente stati.

Che a me sembra molto bello anche se critica la cosa che avevo detto io quella lì che dei bambini se ne vuoi far dei nazisti, ne fai dei nazisti, e io, dopo che ho letto questo contributo di Mirella mi sono chiesto Ma come mai avevo detto quella cosa lì, e mi son ricordato che l’avevo detto per via di quando avevo otto anni che mi ero convinto di essere contrario al divorzio.

Quando facevo la seconda o la terza elementare avevo una maestra che ci diceva che al referendum noi dovevamo far votare i nostri genitori contro il divorzio. Ci diceva che il matrimonio è un vincolo indissolubile e ci faceva venire in classe una volta alla settimana un frate molto gentile a dirci che il matrimonio era un vincolo indissolubile e che essendo indissolubile non si poteva divorziare. La maestra aspettava che il frate uscisse dalla classe e poi ci diceva Avete visto? Cosa vi avevo detto io?

Ecco, quella signora lì, dopo trent’anni ho saputo che in quel periodo lì che c’era il referendum contro il divorzio lei era stata lasciata da suo marito e forse anche per quello mia figlia io non la mandavo a scuola, e neanche all’asilo, solo che le figlie non hanno solo dei babbi, e dei pediatri, hanno anche delle mamme, allora adesso all’asilo mia figlia ci va e poi probabilmente andrà anche a scuola, e forse alla fine è anche un bene, anche se non sono proprio sicuro.

Dopo, prima di concludere con un pezzetto che parla anche quello di avere a che fare con dei bambini di due anni, e che in origine era un racconto e che adesso è diventato l’inizio di un romanzo che si intitola Mi compro una Gilera, titolo preso dal celebre proverbio parmigiano Putòst che tor moiéra, am còmpor na Gilera, prima di finire con questa cosa che si chiama Le scimmie, forse è bene dire che la nostra famiglia, mia figlia sua mamma e io, anche in un’altra cosa, siamo molto poco austroungarici, nel fatto che siamo una famiglia divisa, che mia figlia e sua mamma abitano da una parte e io abito da un’altra, che è una cosa che anche questa io non so se è un bene o se un male, non sono sicuro, non sono sicuro quasi di niente, mi verrebbe da dire che non è né un bene né un male, è una cosa così, e allora pace.

Le scimmie

Ho avuto tanti dispiaceri, nei quarantatre anni che son stato al mondo, ma il dispiacere più grosso, mi sembra, l’ho avuto la scorsa settimana, giovedì, e è durato con intensità crescente fino a lunedì, poi un po’ è calato, però dura ancora, ogni tanto mi torna un po’ addosso.
Una volta, due mesi fa, ero andato a trovare mia figlia, eravam stati al parco, dal leone, dice lei, nel parco dove andavamo prima c’era un leone di ghisa, credo, di ghisa, c’era la statua di un leone che a lei piaceva tantissimo quando mi vedeva diceva Andiamo dal leone.
Per lei vedermi voleva dire andare al parco, e andare al parco voleva dire andare dal leone e anche adesso che lei ha traslocato e quando la vado a trovare andiamo in un altro parco dove di statue e di leoni non ce ne sono, lei continua a dire che andiamo dal leone.
Una volta, due mesi fa, eravamo in questo parco eravamo appena arrivati eravamo seduti su una panchina che mangiavamo il gelato, lei, mangiava il gelato, io l’aiutavo, le scartavo il cucchiaino, l’imboccavo, la pulivo, le buttavo via il gelato che non le andava più le tenevo la cialda, a mia figlia piace moltissimo succhiare le cialde, a guardarla mangiare il gelato si direbbe che le piace più la cialda, del gelato, il gelato dopo un po’ la stanca, di cialde ne mangerebbe dei chili.
Quella volta lì, eravamo sulla panchina, dietro la panchina c’era un casco di banane Come mai ci son queste banane? ho pensato, ma non ho detto niente, avevo in mano il gelato che si stava sciogliendo ho tirato giù mia figlia dal passeggino ho incominciato a aiutarla a mangiare il gelato fino a che lei, si è girata, ha visto per terra il casco di banane mi ha chiesto Cosa sono quelle?
Banane, le ho detto.
E perché sono qui?
Non lo so. Le avrà lasciate qualcuno.
E chi le ha lasciate? mi ha chiesto.
Forse le scimmie.
Le scimmie?
Le scimmie.
Mia figlia si è messa a guardare gli alberi poi mi ha guardato mi ha chiesto Le scimmie?
Sì, le ho detto, le scimmie, probabilmente sono sugli alberi che girano quando si stancano che gli calan li zuccheri vengono giù prendono una banana e via, che fanno un altro giro.
Mia figlia mi ha guardato, ha guardato le banane, ha guardato gli alberi, mi ha guardato, Le scimmie? mi ha chiesto.
Sì, le ho detto io, le scimmie. Facciamo piano che ci dev’essere pieno di scimmie, le ho detto.
Mia figlia mi ha guardato, ha guardato gli alberi, ha guardato ancora me, ha fatto una smorfia, è scoppiata a piangere.
Dopo, tutto il pomeriggio ogni tanto mi chiedeva Ci sono le scimmie?
E io No, non ci sono, non ci sono. Era uno scherzo, non ci sono. Vedi una scimmia? Non c’è neanche una scimmia.
Ogni dieci minuti mi guardava, faceva una faccia spaventata mi chiedeva Più scimmie?
Più, le dicevo io, non ci sono. Basta scimmie.
Basta, diceva mia figlia, son tutte morte, diceva.
Il giorno dopo sua mamma mi ha detto al telefono che mia figlia le aveva raccontato che al parco avevamo incontrato un esercito di scimmie che però io le avevo picchiate con dei bastoni erano andate via. Per un mese circa, quando siamo andati dal leone, lei ogni tanto mi chiedeva Più scimmie?
Più, le dicevo io.
Ogni tanto cercavo di convincerla Te non hai paura dei leoni, le dicevo, non ha senso che hai paura delle scimmie. Se vedi una scimmia e le fai Bu, è la scimmia che ha paura di te.
E lei diceva Bu bu bu, e intanto faceva la faccia cattiva.
Brava, le dicevo io.
Un po’ stava tranquilla poi mi chiedeva Più scimmie?
Più. Non ce ne sono più.
Son tutte morte? mi chiedeva lei.
Sono scappate. Son tornate in Africa.
In Africa?
In Africa. Ma questo non c’entra.
Un’altra volta, un mese fa, eravamo a casa sua, adesso è un periodo che c’è molto freddo, è inverno, è raro, che andiam dal leone, quest’inverno ci siam stati solo una volta verso le cinque c’era già buio non c’era nessuno, solo io e l’Irma, si chiama Irma, mia figlia, e ha due anni, e qualche mese, c’eravamo solo io e questa bambina di due anni e pochi mesi che giravamo mano nella mano per questo parco deserto senza scimmie e senza leoni, ma questo non c’entra, un’altra volta, un mese fa, eravamo a casa sua, mia figlia ha cominciato a raccontarmi una storia che lei, nel giardino del suo asilo, dietro degli alberi, ha incontrato degli elefanti che la volevan picchiare lei si è messa a correre fortissimo è arrivata dentro l’asilo si è chiusa dentro si è barricata.
Ma cosa ci facevano degli elefanti nel giardino dell’asilo? le ho chiesto.
Lei mi ha guardato, ha ricominciato a raccontarmi la storia fin dall’inizio. Si agitava moltissimo, raccontando. E poi i giorni dopo me l’ha ripetuta ancora cinque o sei volte in versioni diverse, le ultime volte era lei, che picchiava gli elefanti, ma raccontava sempre con meno interesse, il suo interesse questi ultimi tempi è rivolto a Bazzocchi, al dottor Bazzocchi.
Una volta sono arrivato a casa di mia figlia che lei aveva il catarro doveva andar dal dottore. Allora con sua mamma siamo montati in macchina siamo andati in centro vicino allo studio del dottor Bazzocchi. Quando siamo arrivati la mamma dell’Irma si è fermata per parcheggiare io e mia figlia siamo andati dal dottor Bazzocchi come siamo entrati in sala d’aspetto s’è aperta la porta il dottore ha detto Avanti il prossimo, e il prossimo eravam noi.
Come siam stati dentro l’Irma s’è guardata intorno, ha guardato Bazzocchi, mi ha guardato, Voglio la mamma, ha detto, e è scoppiata a piangere.
Il dottore ha alzato le mani Non ho fatto niente, ha detto.
L’Irma ha smesso di piangere, gnolava solo un po’, quello stato tra il pianto e il non pianto che hanno i bambini.
Io ho indicato all’Irma un orologio a muro con nel quadrante la foto di un bambino Cos’è quello? le ho chiesto.
Un bimbo, mi ha risposto lei.
E piange? le ho chiesto.
No.
E allora te perché piangi?
E lei mi ha guardato senza dir niente. Dopo Bazzocchi l’ha auscultata, l’ha pesata, l’ha misurata, le ha guardato in gola, le ha fatto prima il verso Fai Aah, le ha detto, Aaaaah, ha fatto l’Irma, e Bazzocchi con una lucina le ha guardato la gola le tonsille quello che doveva guardare stavam per uscire che si è sentito bussare, abbiamo visto aprirsi la porta era la mamma dell’Irma, Ciao mamma, le ha detto l’Irma.
Dopo mi ha detto sua mamma che mia figlia si svegliava al mattino diceva Andiam da Bazzocchi? E quando poi me la passava io le dicevo al telefono Come t’ha fatto fare Bazzocchi? e lei mi diceva al telefono Aaaaah.
Dopo una volta qui ultimamente sono arrivato a casa di mia figlia qualcuno le aveva regalato un set con uno stetoscopio, uno strumento per misurar la pressione, una siringa, un martelletto per provare i riflessi un paio di occhiali di plastica e giocavamo a Bazzocchi. Chi si metteva gli occhiali era Bazzocchi e l’altro era l’Irma che si faceva visitare.
A mia figlia delle volte le piace farmi far l’Irma e le piace fare lei il babbo. Quando io faccio l’Irma che lei fa il babbo io le chiedo Posso guardare i Barbapapà?
No, mi dice lei.
Posso mangiare una mela?
No.
Posso bere un succo di frutta?
No.
Posso bere un bicchiere di latte?
No.
Posso bere un bicchier d’acqua?
No.
Posso andare in bagno?
No.
Posso dormire un po?
No.
Fa una faccia da babbo serissima che lo fa bene, mi viene da dire, ma questo non c’entra.
Una volta salta fuori con la storia che Bazzocchi è malato. Come è malato?
È malato.
È venuto a farsi visitare?
Sì.
E cosa aveva?
Il catarrone.
Ha pianto?
Sì.
E quanto deve stare a casa?
Dodici giorni.
Allora dopo gli devi fare il certificato per tornare a lavorare.
Sì.
Te lo scrivo io, le ho detto, e ho preso un foglio ci ho scritto Io, Irma Nori, dichiaro che Bazzocchi è stato curato dalla sua sindrome da catarrone e che può tornare a lavorare in centro a fare il suo mestiere, e poi le ho dato il foglio e le ho detto To’, firma. Ma come firmi, le ho chiesto poi dopo, che non sai scrivere?
Faccio un pesce, mi ha detto l’Irma, e sotto la dichiarazione ha disegnato un pesce. Ma questo non c’entra.
Dopo poi, giovedì scorso, ero lì con lei, lei voleva vedere Barbapapà, io non potevo farglielo vedere, deve vederlo al massimo una volta al giorno, allora lei un po’ si è arrabbiata mi diceva Vai via.
Io ho preso un libro, lei me l’ha tolto di mano mi ha detto Vai via.
Io ho preso in mano un altro libro lei me l’ha tolto di mano mi ha detto È mio, vai via, vai a Parma.
Mia figlia abita a Bologna, io abito a Parma. Ogni tanto mi dice che vuole venire a Parma io sono contento, quella era la prima volta che mi diceva di andare a Parma.
Ho preso in mano un altro libro, lei me l’ha tolto di mano mi ha detto È mio, vai via, vai a Parma.
Io ho aperto il mio zaino, ho tirato fuori un libro, lei ha fatto per togliermelo di mano ha detto È mio.
No, le ho detto io, è mio.
Lei mi si è avvicinata ridendo io le ho dato una spinta le ho detto Vai via.
Lei mi ha guardato, è scoppiata a piangere è corsa da sua mamma Il babbo mi ha mandato via, il babbo mi ha mandato via, diceva.
Dopo sua mamma ha cercato di farci fare la pace solo che c’era poco tempo io avevo il treno dovevo andare non siamo riusciti, a fare la pace. Lei stava aggrappata a sua mamma mi guardava diceva Ho paura. E io mi son messo il cappello il cappotto lo zaino sono andato a casa. Non ero ancora sul treno che stavo malissimo. Ho provato a chiamarla me la son fatta passare che volevo fare la pace solo come fai, a fare la pace al telefono, con una bambina di poco più di due anni.
Per quattro giorni ho pensato che quando mi avrebbe rivisto avrebbe avuto paura di me. Tutte le cose che vedevo che mi facevano pensare a dei bambini pensavo Anch’io, avevo una figlia che eravamo amici, dopo poi abbiam litigato. Adesso lunedì, pensavo, quando mi vede, avrà paura di me.
Dopo lunedì, quando la sono andata a prendere all’asilo, era contenta, di vedermi. Si era già scordata. Siam stati benissimo. Solo una volta che stava spaccando un badile del teatro della Pimpa che le avevo regalato io le ho detto No, forte, e lei ha avuto un tremlone di paura che io le ho detto Ti ho fatto paura?
C’era lì anche sua mamma le ha detto Non devi aver paura del babbo, ha la voce un po’ forte.
Quel pomeriggio, a un certo punto, mia figlia mi ha detto Facciamo le bestie.
Va bene, le ho detto, io che bestia sono?
Un drago, mi ha detto lei.
E io ho fatto il verso del drago Graaaaah. E poi le ho chiesto E te che bestia sei?
Io sono una femmina, mi ha risposto lei.