Naphtali Kroj
Mi chiamo Naphtali Kroj.
La città dove sono nato non era, per il metro europeo, una città: aveva millecinquecento abitanti. Mille di questi erano commercianti ebrei. Una lunga strada univa la stazione al cimitero. Il treno si fermava una volta al giorno. I viaggiatori erano commercianti di luppolo. Perché la nostra città sorgeva in una regione coltivata a luppolo. Da noi c’erano due alberghi, uno grande e uno piccolo. Il grande l’aveva costruito Wolf Bardach.
Sua madre era stata proprietaria del bagno turco. Morì all’età di cinquantaquattro anni di una misteriosa malattia della pelle, vittima della sua professione. Il figlio, che aveva studiato diritto in Occidente e voleva diventare notaio, vendette il bagno turco per costruire l’albergo Esplanade. L’albergo doveva avere in tutto e per tutto un aspetto europeo, anzi americano, e quindi – come minimo – sei piani e quattrocento stanze.
Inutilmente molti ebrei espressero il loro ragionevole parere che mai sarebbero arrivati nella nostra città quattrocento forestieri. Il signor Bardach mise mano di persona al progetto. Fece arrivare molti uomini dai grandi centri della regione e abbattere la modesta casetta di un commerciante di acquavite. Fu lui stesso a dirigere i lavori. Era grande e grosso, e miope come molte persone che hanno studiato. Portava, a riprova della sua istruzione, un pince-nez d’oro appeso a un largo nastrino di moiré nero. Stava a capo scoperto, con l’imponente corporatura costretta nel camice grigio e in mano un bastone se splendeva il sole o un ombrello se pioveva. Fece costruire un ponteggio abbastanza solido da reggere senza danni il suo ragguardevole peso quando vi saliva sopra.
Terminato che fu il terzo piano, si accorse di non avere più soldi.
Vendette il terreno e i progetti al ricco signor Ritz per il quale qualche biglietto da mille in più o in meno non faceva differenza, e pieno di vergogna partì alla chetichella per Vienna, deciso a diventare notaio.
Il signor Ritz chiamò un ingegnere che voleva guadagnare un bel po’ di soldi e non si accontentò di sei piani. Ne costruì sette. Quando i sette piani furono ultimati, i muratori di tutta la zona fecero una festa. L’ingegnere bevve dell’acquavite, si accostò al bordo del ponteggio e cadde giù. Finì al suolo così straziato che non si riuscì neppure a stabilire se fosse cristiano o ebreo. Lo seppellirono nel sentierino che separava il cimitero cristiano da quello ebraico.
[Joseph Roth, Fragole, tr. di Rosella Carpinella Guarneri, Milano, Adelphi 2010, pp. 13-14]