Mi hanno chiesto cosa pensavo della morte
Mi hanno chiesto […] cosa pensavo della morte, che idea avevo dell’aldilà, che cosa pensavo di una certa nave fenicia, e naturalmente della droga, del Foscolo, dell’amore, dell’eros, dell’erotismo, della pornografia, del sesso, dell’eterosessualità, della fotografia, del cinema muto, degli handicappati, degli omosessuali, dell’inferno, della scuola, dei flipper, di Dio, del romanzo; ma un oracolo non ha raggiunto il suo culmine, non è se stesso, se non gli fanno la domanda estrema: «Che cosa ne pensa lei del culo?»
Di questa domanda debbo osservare in primo luogo che è formulata con il “lei”, e dunque deferente, lievemente angosciata, e che include la parola “culo”. A domande così rispondeva in altri tempi il decaduto oracolo di Delfi, o la quercia di Dodona. E appunto così avrebbero parlato gli antichi: non avrebbero detto “parti deretane”, o “natiche”, o “sedere”, o “servizi”, o “didietro”; tutte parole svergognatamente senza vergogna, oneste, semplici, leali. No: è quella parola breve e sonora, quel “culo”, che vuole una riposta. Mi dicono che il culo oggi sia in crescita, che la sua dignità venga riconosciuta, che sia di moda. Quando diventerà di moda l’orecchio sinistro? O il mastoide? Le lacrime romantiche erano solo un caso – antico – di moda fisiologica?
Questo senso della indegnità del deretano, per cui lo si chiama culo, ha in sé qualcosa di razzista, giacché anche il nostro corpo ha in sé pezzi di varia estrazione; e qui siamo ebrei, lì negri, lì “gialli”, meridionali, zulù. Il culo è vergognoso e ridicolo. Il deretano è un signore serio, di modeste vocazioni, che non fa nulla per farsi notare; fa il suo lavoro, mantiene una onesta famigliola. Il sedere è di vocazione politica, un po’ supponente, chiesastico. Il didietro fa il maggiordomo in una casa patrizia, ma non gli dispiace, ed ha acquisito un certo stile. Ma il culo porta il cappello floscio dei gangster, parla con la sigaretta tra le labbra, pendula, si dice che abbia ucciso, certamente è uomo sordido, traffica in droga, fa la spia; è lo scemo del paese, ma finge.
Si dirà: c’è anche la cula. C’è veramente? Non credo. Venere aveva solo un corpo, era totalmente corpo, e di quella misteriosa forma senza carne Venere gioiva. Il culo riguarda il malparlare e il malvivere maschile dei goffi guerrieri e impiegati che vorrebbero fare i delinquenti. Come oracolo dico: la parola culo si usi solo in versi, meglio se sonetto o sestina, o prosa ciceroniana. È parola infima e sublime.
[Giorgio Manganelli, Improvvisi per macchina da scrivere, Milano, Leonardo 1989, pp. 63-64]