Mentre parlava

sabato 7 Gennaio 2012

Blok lesse per ultimo il suo ispirato discorso su Puškin. Indossava una giacca nera sopra un maglione bianco col collo alto. Muscoloso e asciutto, la pelle del viso arrossata e come arsa dal vento, somigliava a un pescatore. Parlava con una voce un po’ sorda, pronunciando nettamente le parole, le mani ficcate nelle tasche. Ogni tanto si girava dalla parte di Kristi e diceva, scandendo distintamente: «I funzionari sono la nostra plebe, la plebe di ieri e di oggi… Stiamo attenti, potrebbero ricevere un epiteto anche peggiore quei funzionari che vogliono deviare il corso della poesia incanalandola negli alvei da loro stabiliti, attentando alla sua segreta libertà e impedendole di realizzare il suo misterioso disegno». Il povero Kristi era evidentemente sulle spine, continuava a dimenarsi sulla sedia. Qualcuno mi riferì che prima di uscire, mentre si infilava il cappotto in guardaroba, aveva detto ad alta voce: «Non mi sarei mai aspettato da Blok una simile mancanza di tatto».
Ma in quel contesto e sulle labbra di Blok quel discorso suonò non tanto indelicato quanto profondamente tragico e in parte, forse, espiatorio. L’autore dei Dodici affidava alla società e alla letteratura russa il compito di custodire l’estremo retaggio puškiniano – la libertà, sia pure segreta. E mentre parlava, si sentiva che la parete tra lui e la sala stava gradatamente cadendo. Nelle ovazioni che seguirono il suo discorso c’era quella gioia radiosa che sempre accompagna la riconciliazione con una persona amata.

[Vladislav F. Chodasevič, Necropoli, a cura di Nilo Pucci, Adelphi, Milano 1985, pp. 101-102]