Lui è giusto che muoia
Il sillogismo elementare che aveva studiato nel manuale del Kizzevetter: Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, Caio è mortale, per tutta la vita gli era sembrato sempre giusto ma solo in relazione a Caio, non in relazione a se stesso. Un conto era l’uomo-Caio, l’uomo in generale, e allora quel sillogismo era perfettamente giusto; un conto era lui, che non era né Caio né l’uomo in generale, ma un essere particolarissimo, completamente diverso da tutti gli altri esseri: era stato il piccolo Vanja, con la mamma, il papà, Mitja e Volodja, i giocattoli, il cocchiere, la governante, e poi Katen’ka, e tutte le gioie, le amarezze, gli entusiasmi dell’infanzia, dell’adolescenza, della giovinezza. Aveva mai sentito Caio l’odore del pallone di cuoio che il piccolo Vanja amava tanto? Aveva mai baciato la mano alla mamma, Caio, e aveva mai sentito frusciare le pieghe della seta del vestito della mamma, Caio? E Caio aveva mai pianto, per avere i pasticcini quando andava a scuola? E Caio era mai stato innamorato? E Caio sapeva forse presiedere un’udienza in tribunale?
Caio è mortale, certo, è giusto che muoia. Ma per me, per me, piccolo Vanja, per me, Ivan Il’ič, con tutti i miei sentimenti, i miei pensieri, per me è tutta un’altra cosa. Non può essere che mi tocchi morire. Sarebbe troppo orribile.
[Lev Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič, cap. VI]