L’italiano vero
1) Non so se al corrente della cosa, ma negli ultimi tempi ci sono molte persone che decidono di trasferirsi in Svizzera, lasciando l’Italia. Sono soprattutto giovani. Quindi il suo libro ha un aggancio sull’attualità molto forte. È voluto?
È successo, ma più che sforzarmi di trovare un aggancio sull’attualità, mi sembra di essermi sforzato di trovare delle soluzioni narrative plausibili, se così si può dire.
2) Condivide le impressioni del suo personaggio per la Svizzera e più in particolare per il Ticino?
Mi piacerebbe, ma Benito, il protagonista, ha trent’anni più di me e una lingua e uno sguardo sulle cose (anche sulla Svizzera) che mi sembrano molto diversi dalla mia lingua e dallo sguardo sulle cose che ho io.
3) La Svizzera è un tipo di racconto a cui i suoi lettori, immagino, non siano abituati. Pure se il personaggio principale viene da un suo precedente romanzo, il testo è teatrale: le indicazioni di scena rimandano (ironicamente?) persino a Jonesco. Ma l’ha pensato veramente per il teatro? O è un testo “sfuggito di mano?”.
L’ho pensato per il teatro; è un testo che è saltato fuori dopo che ho letto un paio di volte La fondazione, di Raffaello Baldini, e ho provato anche a proporlo a qualche compagnia teatrale ma nessuno l’ha preso e allora l’ho pubblicato.
4) Diciamo che del suo libro non intendiamo raccontare la storia, perché non vogliamo togliere ai lettori la sorpresa di immergersi nell’intreccio. Nel suo libro ad ogni modo c’è una morte, c’è un’inchiesta e c’è un sospetto irrisolto. È un modo diverso di fare del “noir”? Le interessa come genere letterario?
Ultimamente mi viene in mente spesso un libraio di Campobasso che qualche anno fa mi ha raccontato che quando un cliente entrava nella sua libreria e gli chiedeva «Mi consiglia un bel giallo?», lui gli dava Delitto e castigo, di Dostoevskij. Io non capisco benissimo le classificazioni di genere, e quando qualche anno fa ho sentito consigliare «un bellissimo noir, Lo straniero di Camus», ho pensato che non ci avevo mai pensato ma che, effettivamente, poteva anche darsi. Comunque sia, credo che tra gli scrittori che vengono considerati di genere ci sia della gente bravissima, come, per esempio, James Cain, il cui La morte paga doppio, per esempio, mi sembra un libro memorabile.
5) Una cosa molto bella dei suoi testi è il respiro della sua frase, il suo modellare la parola scritta sulla lingua parlata, quel modo tipico di parlare l’italiano che hanno emiliani e romagnoli. Pensando al successo di romanzi italiano-dialettali come i libri di Camilleri, possiamo dire che il futuro della letteratura italiana potrebbe essere nei dialetti?
Non ho le idee molto chiare sul futuro della letteratura italiana, ma ho l’impressione che la lingua italiana contemporanea sia un insieme di lingue regionali, e il fatto che queste lingue entrino nella letteratura contemporanea, con esiti anche notevoli dal punto di vista delle vendite, è una cosa della quale io sono contento.
6) Anche perché, detto da “vicinesi”, la nostra impressione qui, un po’ alla periferia dell’impero, è di non essere mai abbastanza in grado di padroneggiare l’italiano “vero”. Capita anche lei di aver soggezione della tradizione letteraria “toscaneggiante”?
Io ho l’impressione che l’italiano corretto, l’italiano che insegnano nelle scuole di dizione (che non è quello che si parla in toscana, dove, per esempio, c’è la gorgia toscana, che è un fenomeno fonetico che in italiano non c’è), quell’italiano lì preciso, dove pésca vuole dire una cosa, pèsca un’altra, dove sétte significa una cosa, sètte ne significa un’altra, quell’italiano lì, ho l’impressione che in Italia lo parlino quelli che hanno fatto una scuola di dizione, che saranno, non so, cinquemila? Diecimila? Ventimila? Trentamila? E che gli altri cinquantanove milioni e briscola parlino un’altra lingua. E quando, una volta, mi è successo di andare in giro con una ragazza che faceva l’attrice e che, anche per strada, nei bar, parlava in dizione, io, devo dire la verità, ho avuto vergogna, e quella esperienza, per quanto vergognosa, mi ha fatto pensare che forse facevo bene, a provare a scrivere nella mia lingua madre, l’italiano-emiliano, se così si può dire, che è una lingua marginale, ma, mi sembra, più concreta e più pratica dell’italiano italiano, di quello che lei chiama l’italiano vero, come se i nostri non fossero veri. Ecco io ho l’impressione che i nostri italiani siano più veri dell’italiano vero, non so se si capisce.
[Intervista ad Alessandro Zanoli per il numero in edicola di Azione, settimanale ticinese]