Le parole nei romanzi
Siccome ho l’impressione che la maggior parte delle cose che ho studiato a scuola siano cose che non ho mai usato in vita mia, e che mi son dimenticato presto, quando mi succede che mi ricordo una cosa che ho studiato, e che magari la uso, anche, devo dire che mi stupisco, un po’, e questo stupore è saltato fuori in questi giorni che ho letto Lacci di Domenico Starnone, romanzo pubblicato da poco da Einaudi che mi ha fatto venire in mente un saggio di Michail Bachtin che ho studiato per l’esame di francese 1 all’università, anno accademico 1988/1989. Si intitolava, quel saggio, La parola nel romanzo, e diceva, tra le altre cose, che la caratteristica dei romanzi moderni era la polivocità, mentre caratteristica degli antichi romanzi cavallereschi, per esempio l’Amadigi di Gaula, era l’univocità. Cioè nei romanzi cavallereschi, come nell’Amadigi, il cavaliere e il suo scudiero, che avevano, com’è naturale, provenienza sociale e educazione completamente diverse, parlavano nello stesso modo, perché i romanzi cavallereschi, primo tra tutti l’Amadigi, erano il modello linguistico, insegnavano «la bella lingua e il buon tono». «Si sono composti interi libri, – scrive Bachtin – come Il tesoro di Amadigi, Il libro dei complimenti, dove erano raccolti, tratti dal romanzo, modelli di conversazioni, di lettere, di discorsi, ecc. Il romanzo cavalleresco, – dice ancora Bachtin – dà una parola per tutte le situazioni e le peripezie possibili, contrapponendosi sempre alla parola volgare con le sue grossolane vedute».
Il romanzo moderno, invece, secondo Bachtin, primo tra tutti il Don Chisciotte, è un’opera polifonica, dove il cavaliere, Don Chisciotte, parla come parlano i cavalieri negli antichi romanzi cavallereschi, soprattutto nell’Amadigi, mentre lo scudiero, Sancho Panza, che ha un’educazione e una provenienza completamente diverse, parla in un modo completamente diverso, usa tantissimi proverbi e fa un mucchio di sfondoni grammaticali ed è anche, fisicamente, completamente diverso, dal suo padrone.
E, se ho capito bene l’idea di Bachtin, il romanzo cavalleresco antico doveva per forza essere univoco, perché rispondeva alla necessità di una lingua unitaria, era l’espressione delle tendenze centripete, della lingua, della pulsione verso un modello comune ideale, «la bella lingua e il bel tono», mentre nel romanzo moderno, secondo Bachtin, trovavano espressione le forze centrifughe, della lingua, «risuonava la pluridiscorsività buffonesca, si faceva il verso a tutte le lingue e a tutti i dialetti. Lì, – scrive Bachtin– non c’era nessun centro linguistico, si giocava […] con le lingue dei poeti, dei dotti, dei monaci, dei cavalieri, tutte le lingue erano maschere e non c’era un volto linguistico autentico e indiscutibile».
Ecco, Starnone, che questa polivocità romanzesca certamente la conosce, la cita anche, in un libro di qualche anno fa, Ex cattedra, riferendola alla Divina commedia, e che di questa polivocità romanzesca ha dato continue prove, nel corso degli anni (memorabile, nella mia esperienza di lettore, la durezza della voce del padre del protagonista di Via Gemito, in cui si mischiavano con grande potenza, e in un modo che mi pare comprensibile a tutti, lingua italiana e napoletana), Starnone, dicevo, in questo suo Lacci sembra faccia una scelta completamente diversa.
La vicenda, che copre qualche decennio, si svolge a Napoli e a Roma, ma la lingua è talmente bella, nel senso dell’Amadigi, il tono è talmente buono, la spinta centripeta è talmente riuscita che se si volesse spostare il romanzo da Napoli e Roma a Verona e Udine, per dire, mi sembra che basterebbe scrivere Adige al posto di Tevere e cambiare forse il nome di qualche strada e di qualche quartiere e funzionerebbe benissimo, nel senso dell’Amadigi.
E i protagonisti, che sono tre, e si passano la parola nelle tre parti del romanzo, sono anche loro, come il cavaliere e lo scudiero dell’Amadigi, e diversamente da Don Chisciotte e Sancho Panza, delle voci senza corpo, anzi, una sola voce che sembra che parli un po’ sempre nello stesso, modo, a parte uno dei tre che, alla fine, dice anche qualche parolaccia e che mi ha fatto venire in mente un altro romanzo che ho letto recentemente, La regola dell’equilibrio, di Gianrico Carofiglio, che quando ho finito di leggerlo ho pensato che La regola dell’equilibrio sicuramente era un bel titolo, e azzeccato, ma che un titolo probabilmente più azzeccato, per quel romanzo lì, sarebbe stato Gli uomini cattivi dicono le parolacce, secondo me.
[uscito ieri su Libero]